martedì 17 febbraio 2015

UNA COSA GIUSTA


Giacomo Debenedetti
Un problema universale: l'ingiustizia compensativa di un errore è giustizia? Se commetti una discriminazione e fai torto a qualcuno, ha senso riparare risarcendolo anche a costo di far torto a qualcun altro o di infrangere qualche regola o principio? Si sa che no, in linea di massima. Ma sentirlo dire dal punto di vista di un ebreo di Roma che meno di un anno prima ha visto sparire quasi per intero la “sua” comunità, sequestrata e deportata dai tedeschi, dissolta in un tempo brevissimo, risulta convincente come mai.

Naturalmente conoscevo di fama Giacomo Debenedetti (1). Mi sarà anche capitato di leggere qualche pagina critica sua quando insegnavo italiano al triennio, per preparare le lezioni, ma confesso tranquillamente che non l'ho frequentato più di tanto, in fin dei conti non era il mio specifico. Poi mi è capitato di incontrarlo due volte in breve tempo: prima grazie alla lezione di Massimo Raffaeli dedicata a lui su Wikiradio e trasmessa lo scorso 1 dicembre, che ho ascoltato, credo, durante le vacanze di Natale, e poi, soprattutto, sentendo leggere da Moni Ovadia i due suoi testi in prosa più famosi, non finzione ma cronaca, scritti entrambi nel 1944 sulla materia ancora caldissima della persecuzione degli ebrei romani, mentre ancora dovevano consumarsi le sorti sia della guerra che di tanti altri ebrei d'Europa. Sorti già segnate, come adesso sappiamo, ma come invece non poteva sapere un intellettuale italiano che, dal suo angolo, comunque cercava subito di andare oltre la denuncia, la tragedia, la commozione, la celebrazione e di raccogliere gli eventi dentro un significato.
Soprattutto adesso che tutti gli anni a scuola ci fanno ripensare all'olocausto per dovere ufficiale, abbiamo assoluto bisogno di queste prove letterarie (e artistiche in genere) di altissimo livello: solo un lavoro la cui qualità sia indiscutibile può permettere a un evento storico, per quanto eccezionale nella sua drammaticità, di reggere il logorio delle feste pubbliche senza sbiadire, senza dare assuefazione. Proprio qui sta il rischio di queste memorie obbligate dalla legge, sulle quali non sarei del tutto d'accordo, perchè uno degli effetti possibili dell'obbligo poi è appunto la stanchezza e il fastidio. Mi ricredo un po' quando vedo che comunque certe cose sono ancora in grado di colpire abbastanza forte gli scudi emotivi che forniamo ai nostri ragazzi, fatti di binge watching, smart, social e altri passatempi deficienti. Ma la cosa funziona solo (come sempre, com'è giusto...) se ci crediamo e facciamo proposte pesanti abbastanza da scuoterli, ma anche fini abbastanza da entrare negli interstizi delle loro protezioni plastiche, e intelligenti abbastanza da incontrare qualche loro bisogno autentico (2).
A questo scopo può servire bene il racconto vero che Debenedetti scrive a un anno di distanza dalla tragedia degli ebrei romani, a cui lui stesso racconta altrove di essere sfuggito per caso: 16 ottobre 1943. Non mi ci soffermo non perchè non ne valga la pena, anzi: come mi pare il caso di riproporre ogni pochi anni Arrivederci ragazzi, così credo che una buona idea per l'anno prossimo (e per qualche altro anno futuro, a salti, secondo occasione), possa essere un reading di 16 Ottobre con ragazzi-lettori scelti e un poco preparati, inframmezzato da qualche pezzo di musica alta, sperando che riproporre a scuola un pezzetto di radiotre non sia pretendere troppo.
Non mi ci soffermo perchè invece è Otto ebrei, l'altra cronaca (che nell'edizione Sellerio del '93 è presente insieme a 16 ottobre) il testo che mi ha fatto l'impressione più grande e profonda. Dico subito la cosa che mi ha colpito di più personalmente in modo da sgombrare il campo dagli aspetti più precisamente letterari (per lasciarlo a quello schema di riflessione morale che intendo provare a buttare giù): Otto ebrei assomiglia molto alle cose che mi piacerebbe essere capace di scrivere. Il grado di densità, l'equilibrio di concetto e stile, la sottigliezza tagliente ma non eccessiva, capace comunque di portarsi dietro tutta l'emozione e di sfidare chi legge a seguire il ragionamento promettendogli un punto d'arrivo, una soddisfazione della coscienza: penso che potrei rileggerlo e risentirlo (3) a lungo, cercare di studiarne l'andamento per vedere se riesco ad assimilarlo e a riprodurne una specie. Farne un modello, insomma. Magari adesso qualche esempio chiarisce un po' perchè mi sembra così efficace.

Otto ebrei parte da un dettaglio terribile (la scelta arbitraria di salvare alcune persone, otto ebrei appunto, dal massacro delle Fosse ardeatine, compiuta da un commissario di polizia di Roma) per cercare di arrivare alla soluzione definitiva di quel problema permanente che qui si è posto come incipit. Le differenze non possono essere la radice dell'ingiustizia: nessuna differenza dovrebbe poter giustificare una disuguaglianza. Una di quelle, intendo, che fa differenza: di libertà, e quindi di vita o di morte (cfr. infra), al di là delle differenze che va bene accettare. E allora la contrarietà, ferma e argomentata con finezza straordinaria, è rispetto al fatto che un pregiudizio riparatore, un trattamento di favore che risarcisca di una persecuzione, è ancora di nuovo una mancanza di rispetto che non risolve il problema ma lo riproduce, preparando il terreno per nuovi abusi. Inutile che io riassuma o riesprima: tanto vale citare, copiando sotto dettatura dal podcast che in questo momento mi pare sia l'unico modo di procurarsi il testo, biblioteche pubbliche e private a parte (mi pare di capire che nell'edizione Einaudi del 2005 c'è solo 16 ottobre). Osservo solo, come sostanza del mio ragionamento, che questo è, dovrebbe essere, l'atteggiamento di fondo attraverso cui affrontare più o meno tutte le questioni di discriminazione: niente benevolenza preconcetta, niente riserve indiane destinate a rendere sempre più derelitti i derelitti. Poi d'accordo sull'emergenza: finché si ammazzano le donne a botte ha senso tontonàre i fioi sul rispetto e sui principi della parità di genere. Così pure, finchè c'è in giro gente che gioca a fare il nazi o spende qualche genere di paranazismo come moneta per comprarsi pezzetti di potere, va bene un po' di memoria ufficiale. Ma il punto d'arrivo dovrebbe essere questo: nessuna differenza oltre a quelle inevitabili, tipo i meriti e le difficoltà. Credo che sia questo che vuole Debenedetti per gli ebrei quando rivendica loro il diritto di soffrire. Tra parentesi, non è difficile vedere come questo principio dia forza e legittimità a chi chiede a Israele di rispettare a tutti i costi i principi della cui violazione gli ebrei sono stati vittime: lo stesso Debenedetti ricorda nel finale quanto sia facile abituarsi al privilegio (4). Ma di questo casomai. Adesso lascio parlare Giacomino (5), scusandomi per le interpunzioni che, ovviamente, sono messe a orecchio.

[...C]hi, come gli ebrei, ha sete di libertà, una di quelle seti che tappezzano il palato, chi ha capito come la libertà sia letteralmente una questione di vita o di morte, è pronto a riconoscere che che tra tutte le libertà che compongono la libertà c'è anche la libertà di essere antisemiti. Un antisemitismo di uomini liberi, un antisemitismo (se non c'è contraddizione) liberale, contro cui sia dato di opporre validi argomenti e pertinenti confutazioni, apparirebbe perfino tonico, ravvivante, rigeneratore, agli ebrei che escono ora dall'anchilosi dell'immobilità e del silenzio. Discutere finalmente all'aperto, misurarsi, farsi le proprie ragioni, uomini tra gli uomini, uomini di fronte agli uomini, non parrebbe nemmeno vero a loro che fino a ieri erano costretti a nascondersi, a ri-inghiottirsi reazioni e risposte, a cambiarsi i connotati, diffidati persino di pronunziare il proprio nome, cioè, in parole povere, di dirsi figli del proprio padre.

Recensendo il libro di Wendell L.Wilkie One World (6), Benedetto Croce ha trovato l'occasione di ribadire un bisogno fondamentale dell'uomo, che è di soffrire e di lavorare. Qui, da questa parte della guerra, gli ebrei si vedono di nuovo riconosciuto, dopo anni, il loro bisogno di lavorare, rinasce in essi completamente il bisogno di soffrire. Forse che non hanno sofferto abbastanza? Sicuro che hanno sofferto, il mondo sa quanto, e di là dal fronte della libertà ancora soffrono, e in tal misura che questa nostra pretesa di soffrire può sembrare bestemmia, cattiva sfida, provocazione del destino.
Ma la pretesa, a guardarci meglio, è unicamente di non accampare né vedersi riconosciute speciali pretese, il diritto di non avere speciali diritti. Speciali, cioè razziali. E quello che gli ebrei già liberi hanno patito, e quello che i perseguitati patiscono ancora, desiderano sia versato, messo in comune, mescolato al lungo, collettivo, unanime tributo di lacrime e di supplizi che gli uomini degni di questo nome hanno offerto e offrono tuttavia per assicurare al mondo la più lunga serie di secoli civili.

Questi soldati chiedono soltanto che i loro carnai siano ricordati tra i campi di battaglia di questa guerra. Chiedono che, se si farà l'appello dei morti, i loro nomi siano letti tra quelli degli altri soldati caduti per questa guerra, senza un più di gloria che facendo un torto ai commilitoni offenderebbe quella giustizia per cui sono morti, la fraternità della morte, e parrebbe un torto fatto a loro. Senza un supplemento di pietà, pietà per i poveri ebrei, che umilierebbe il loro sacrificio. E se un giorno a questi caduti si vorrà dare una ricompensa al valore, non certo noi, gli ebrei sopravvissuti, la rifiuteremo. Ma non si conino apposite medaglie, non si stampino speciali diplomi. Siano le medaglie e i diplomi degli altri soldati: soldato Coen, soldato Levi, soldato Abramovicz, soldato Chaim Blumenthal di 5 anni, caduto a Leopoli in mezzo alla sua famiglia mentre, con le mani legate dietro la schiena, ancora difendeva, ancora testimoniava la causa della libertà. Queste motivazioni noi, indegnamente sopravvissuti, le ascolteremo sull'attenti. Cercheremo di non tremare quando stringeremo la mano che ci verrà tesa. La nostra voce si sforzerà di essere ferma quando risponderemo: «Grazie, signor generale». Poi rientreremo nelle mute interminabili file che schiereranno i parenti degli altri caduti, le gramaglie di tutto il mondo, in quella solenne religiosa parata dell'umanità. Quel bisogno di soffrire di cui parla il Croce, non è se non il bisogno di sentirsi vivi nella vita di tutti, partecipi della immancabile lotta e contrasto che il lavoro e i compiti quotidiani costano in questo mondo. Il quale, se diventasse un mondo di idillio, nel momento stesso diventerebbe un mondo di morti che camminano, quand'anche fallacemente lo smaltassero e imbellettassero i colori della vita. Perciò gli ebrei chiedono questo onore di soffrire, cioè chiedono di non essere defraudati, neppure a titolo di risarcimento o di riparazione dei danni, di questa loro parte dell'umano retaggio.

Sono delle parti, alcune di quelle che ora mi sembrano più importanti e dirette. Direi che bastano, anche se più risento le parole e la voce di Moni Ovadia che legge e più mi pare che tutto dovrebbe essere letto e meditato e mi viene la tentazione di non scegliere brani ma riportare tutto senza togliere niente. Invece alla fine lascio fuori per esempio la grande metafora conclusiva degli ebrei come aratori del vulcano, della quale ritaglio e metto qui solo il finale, che è anche il finale del testo, la limpida rievocazione delle vacche bibliche:

Vorremmo dire che gli ebrei non è che si inarchino sotto le sciagure degli anni delle vacche magre per aspettare che rivenga il settennio delle vacche grasse. Sono uomini, certo, e amano anche loro la sicurezza, il benessere, magari la felicità. Le vacche magre non piacciono neanche a loro. Ma non è vero, non deve essere vero che poi in compenso pretendano le vacche troppo grasse, se non altro per dignità, per un equo senso della vita, per un loro umano amor fati, amore del rischio e del destino. Né troppo magre, né troppo grasse: una cosa giusta.

Poi un passaggio dalla nota all'edizione Einaudi del 1961, nel cui monito finale mi metto dentro tutto intero, per quanto la vigilanza a cui invita sia difficile e faticosa, e impossibile da praticare perfettamente:

Lo scritto [...] perlopiù fu accusato di ingratitudine. Oggi forse lo si leggerà con altri occhi, visto che ogni giorno gli uomini di razza umana sono costretti a riscattare con un sovrappiù d'amore le malefatte di qualcuno dei tanti razzismi. E' chiaro che questa disponibilità di amore invece di accumularsi in scariche passionali quando non c'è più rimedio, sarebbe meglio impiegata se si diluisse in una durevole equanime solidarietà capace di prevenire stabilmente il male.

Infine un ultimo pensiero, un inciso che appartiene alla prima parte, mentre quasi tutte le citazioni che ho proposto vengono dalla seconda. Di passaggio, mentre si spiega che né in Hitler né in Mussolini c'era personalmente un vero odio per gli ebrei e che la loro persecuzione era per entrambi uno strumento nel gioco politico, questo cenno che mi sembra contenere un nucleo di verità quasi più profondo di tutto il resto:

Essere segno di affetti precisi, motivati, è la sola maniera per il cuore di sentirsi vivo. 
 
La copertina della biografia di Giacomo scritta da Antonio
P.S. Mi sbagliavo: l'edizione Einaudi di 16 ottobre contiene anche Otto ebrei, ed è questa qui sotto. Naturalmente poi non son riuscito a fare a scuola quello che avrei voluto e invece ho letto il testo in classe chiedendo ai fioi di ragionarci sopra per iscritto. Ma non ha funzionato: invece dell'emozione della tragedia e della finezza della ragion pratica ho fatto provare loro soprattutto la fatica del lavoro non abbastanza motivato e il fastidio della costrizione. Con in più il fatto che alla fine ne ho letti alcuni ma non sono ancora riuscito a correggerli, da gennaio in qua. Ma adesso, prima della fine della scuola, lo faccio, cascasse il mondo. Malgrado scrutini e compiti e cazzi vari e campagna elettorale...




(1) Se qualcuno invece del mio sproloquio vuole leggere qualcosa di serio su 16 ottobre 1943 e Otto ebrei veda a questo link l'intervento di Giuliano Manacorda nel convegno del 1988 su Debenedetti a vent'anni dalla morte. Il sito, molto bello e pieno di roba, è curato e dedicato dalla prof. Rosita Tordi Castria (che deve avere una certa età perchè si è laureata quando sono nato io...) al suo maestro. Anche questa devozione intellettuale mi pare molto bella.
(2) Mi verrebbe da dire qualcosa sull'artificiosità della contrapposizione creata dalla legge italiana tra la memoria e il ricordo, con la festa ufficiale del 10 febbraio inventata in realtà per dare politicamente ai postfascisti un'occasione a cui appendere dell'anticomunismo ufficiale. La sproporzione tra i due eventi mi sembra enorme non solo per entità ma anche per il carattere delle dinamiche, la prima abissalmente più ingiustificata della seconda, in cui il principio di pulizia etnica e la conseguente migrazione forzata restano tragedie, ma hanno alle spalle occupazione, snazionalizzazione, deportazione e morte. Ma se alla fine la seconda “festa” la usiamo per ragionare con attenzione su una dinamica non solo drammatica ma complessa e curiosa, molto emblematica dei caratteri centrali del secondo dopoguerra e dei paradossi del bipolarismo, magari va anche bene, dopotutto.
(3) La pagina di Ad Alta Voce con disponibile lo streaming delle due letture è a questo link.
(4) “Senza dire che ai privilegi e benefizi è troppo facile adattarsi: le agevolezze di vita rendono superficiali e assecondano le riparatrici e già troppo spontanee labilità della memoria. I dolori di ieri si dimenticano, anche e proprio quando furono più luttuosi e cocenti, e si dimentica quanto cordoglio e quante angosce sia costato questo bene che oggi pare largito appunto per aiutarci a dimenticare. Ci si abitua a essere amati, a vivere con facilità, e l'abitudine rischia di diventare presto un bisogno e il bisogno acquisito rischia di creare la presunzione di un diritto. Può questa nostra parere una riottosa, bizzosa, vittimistica, incontentabile paura di essere amati, ed è soltanto paura di essere gratuitamente amati, ingiustamente amati, cioè male amati: non più costretti a far nulla per meritarci questo amore. Ma domani inevitabilmente dovremo ricominciare a meritarcelo, e allora? Non saremo stati viziati?” Questo pensiero nella prima parte mi fa pensare certamente all'Israele di oggi, se non per il fatto che gli israeliani di oggi potrebbero contestare a buon diritto che la loro condizione sia segnata da troppe agevolezze di vita. Ma nella seconda parte mi fa pensare alla nostra costante insoddisfazione per come e quanto siamo amati, per la pretesa dei figli che l'amore dei padri sia dato loro a prescindere, anche senza e anche contro i meriti, alla eterna questione di quanto amore e di quanto rigore serva per educare i figli, di cui non qui e probabilmente mai. Comunque è anche in passi come questi che Debenedetti mi pare si porti dietro una specie di saggezza abissale.
(5) Antonio Debenedetti ha dedicato al padre questa specie di biografia, tra il personale e l'intellettuale che cercherò di procurarmi e di leggere. Qui la commovente postfazione di Antonio alla seconda edizione, sempre dal sito dedicato a Debenedetti da R. Tordi Castria.
(6) E' il repubblicano che perse le elezioni del 1940 contro Roosevelt. Il riferimento al suo libro non ci è chiaro, ma la cosa non dovrebbe avere peso, mi pare, in questo contesto.

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