venerdì 1 maggio 2015

LA DIREZIONE DEL LIBECCIO

Sandro Gallo - "Garbìn"
Dove tira il vento? Non è facile capire. Non è per praticare la virtù meschina di chi riesce a farsi portare avanti senza metterci del proprio e fare la fatica che deve. Ma se non ti rendi conto della direzione che le cose prendono corri il rischio di lottare tutto il tempo contro una forza troppo più grande della tua, abbastanza da togliere senso e utilità a qualsiasi cosa tu possa fare. Alla bellissima smisurata preghiera di De André (1) che si posizionava per principio in direzione ostinata e contraria preferisco tutto sommato il ragionamento, apparentemente più dimesso, secondo cui si poteva accettare di morire per delle idee, vabbè, ma di morte lenta (ragionamento che in realtà, si sa, prima che di De André era di Georges Brassens).
Di questi tempi del resto abbiamo la fortuna di dover combattere battaglie per le quali in genere il prezzo non è la pelle. Ma naturalmente dal dubbio su quale sia di volta in volta la decisione giusta da prendere non ci si libera mai. Guardi la situazione e dici: “Sì, ecco, si fa così. Mi pare”. Sei convinto. Abbastanza. E' un problema simile ad altri che hai affrontato e ti sembra di aver avuto la riprova, poi, che andava bene come hai fatto: ti senti a posto. Poi però ogni tanto guardi avanti, perchè sai che quel problema è collegato a tanti altri e non si può decidere sempre in base a un'occhiata a quello che hai sotto il naso. Allora cerchi di capire cosa potrebbe succedere fra un po' di tempo, quando si saranno fatti altri passi e le cose cambieranno in modi che adesso forse non riesci neanche a immaginare. Anche quello ti è successo: che hai detto “Eh, se avessi saputo dove andavano le cose, forse quella volta non avrei detto (o fatto o deciso...). Quella volta forse ho sbagliato”.
Normale, probabilmente banale: cose che toccano tutti i giorni o tutte le settimane, come fare la spesa e pulire casa. Ma è attraverso queste scelte che ti misuri con te stesso e decidi nell'insieme chi sei: quando tocca alzare la testa e guardare in fondo, in prospettiva, l'orientamento del tuo naso dipende in genere da quelle tre-quattro idee di base che ti foderano lo stomaco e i polmoni e che di solito la gente chiama: princìpi. Ogni tanto occorre tornare a vedere come sono fatti e cercare di capire come si possono mettere giù rispetto alle questioni di cui ti devi occupare. E' qui che vorresti saper capire dove tira il vento. Dove va la storia, potremmo dire, se l'enfasi non ci facesse un po' paura.
   
Ogni tanto gli studenti manifestano. Ma noi stiamo tra la Marca e il Patriarcato di Aquileia, quindi il fenomeno si verifica di rado ed è di entità decisamente modesta: la grazia o il tedio a morte di vivere in provincia, direbbe il poeta. Però ogni tanto succede. Potrebbe anche essere una buona cosa, ma mi sono abituato a dubitarne per esperienza: anche facendo la tara del tempo passato e del cambiamento dei costumi, la gente dai sedici ai diciotto che in genere ho sottomano io, quanto a coscienza politica spesso non regge il confronto con un paracarro. Nessun disprezzo: è certamente – appunto – soprattutto il segno dei tempi. Casomai un po' di rammarico. Insegnando, dei semi cerco di buttarli. E riesco a farlo – direi – restando ben lontano (non è poi difficile) da qualsiasi sospetto di indottrinamento. Ma funziona poco: forse i semi non sono buoni oppure sono maldestro io nel gesto del seminatore. Me lo chiedo: altri dubbi. Ma non è questo il punto.
Il punto è che quando nell'amena provincia qualche studente si vuole mobilitare e comincia ad agitarsi, io tendo in genere ad assumere per abito un'attitudine prudentemente minacciosa. Voglio impedire agli studenti di crescere e acquistare quella coscienza di cui poi tanto ipocritamente altrove deploro la mancanza? Qualcuno pensa di sì. Lo studente B. D., sul giornalino di istituto, prima richiama l'articolo 21 della Costituzione, poi scrive: per queste motivazioni nessun professore può impedire la partecipazione a manifestazioni studentesche, minacciando brutti voti o ricattando in altro modo. Credo giustappunto di essere il professore in questione. Ricatto? In genere dico pressappoco che, anche se mi rimane in classe uno studente solo, io faccio lezione e poi mi premuro, quando interrogherò, di verificare che chi era assente quel giorno si sia messo in pari con gli argomenti trattati. Non è una minaccia terribile, ma è certamente una minaccia, sono d'accordo. E scrivo e sottoscrivo che ci sta e che sono perfettamente convinto che sia il minimo che è giusto fare in queste occasioni.

Potrei, per spiegare le mie ragioni, raccontare brevemente quello che succedeva nella mia scuola fino a non molti anni fa. Verso i primi soli, inizio marzo, e in genere in giorni di fine settimana, quasi sempre il sabato, molti studenti arrivavano a scuola ma poi non entravano. Restavano all'esterno fino al suono della campana e poi anche a quel punto rimanevano fuori con le mani in tasca, per poi cominciare pochi alla volta ad avviarsi verso i bar del centro. Facevano sciopero, secondo loro. Le prime volte sono rimasto basito e non ho reagito subito, poi ho cominciato ad andare a parlarci per sapere. E, al di là del fatto che quasi mai queste tranquille agitazioni paracule avevano uno straccio di collegamento con manifestazioni indette ufficialmente per ragioni serie a livello più o meno generale (nazionale, provinciale...), anche le motivazioni addotte per la situazione specifica della mia scuola erano tali da suscitare reazioni tra lo sdegno e l'ilarità. L'esempio che ricordo è quello, una volta, della mancata asfaltatura del vialetto di accesso alla scuola. Forse sarà il caso più idiota, ma mi pare che in altri casi le ragioni non erano molto più consistenti.
A me veniva più facile lo sdegno. Ho cominciato a discutere animatamente e a ricordare cosa era il diritto di sciopero e come si era arrivati ad ottenerlo e a che prezzo, nel mondo e in Italia. Non serviva gran che: qualcuno forse si sentiva un po' in imbarazzo, ma i più se ne fregavano. Allora ho cominciato ad andare a cercarmi i miei e, semplicemente, a intimare loro di andare in classe e di non perdere tempo in cazzate. Non servivano minacce particolari, si capiva che pensavo che stessero facendo una grossa idiozia che trovavo seriamente spregevole. Una volta (piccola soddisfazione che mi era passata di mente, me lo ha ricordato molti anni dopo lo studente S.) una signora che assisteva alla scena dal balcone ha applaudito il mio discorso mentre gli studenti delle mie classi cominciavano a entrare.
Non ricordo bene in che modo col tempo la cosa sia cessata. E' stata una piccola battaglia, che probabilmente qualche mio collega ha supportato in qualche modo, non mi pare proprio di aver fatto tutto da solo. Il residuo della faccenda, oggi, è “la giornata della creatività”, in cui gli studenti si dedicano ad attività autogestite. Che però, come ha recentemente osservato Teresa, di solito da noi sono attività che troverebbero collocazione più degna al GREST: si fanno decorazioni in pasta fillo (!), preparazione di dolci, musica rock eccetera: quasi qualsiasi cosa, purchè non si tratti – diciamo – di roba culturale e tantomeno attinente a qualche genere di disciplina curricolare (che so, seminari di storia contemporanea o reading di letteratura e poesia magari in lingua originale o esperienze di laboratorio magari con docenti esterni... solo per dire cosa ad esempio si fa in altre scuole).

Potrei raccontare, dicevo, quello che succedeva una volta nella mia scuola. Ma non serve. Invece porto a sostegno del mio atteggiamento un argomento semplice con il quale anche di fronte agli studenti giustifico – se ci riesco – le mie minacce: se io protesto devo pagare un prezzo, altrimenti che protesta è? Se la modalità della protesta comporta dei vantaggi per me, tipo saltare le lezioni, non sono credibile. Così mi limito, in realtà, a rompere un po' le balle pretendendo che, se proprio gli studenti vogliono protestare, almeno mi dimostrino un po' di serietà e consapevolezza. E rompo le balle costringendoli a pagare un piccolo prezzo e ammonendoli che, nel rapporto che si crea in classe, il fatto che non facciano vaccate è una delle cose che può permettermi di dare loro credito, esattamente come io devo guadagnarmi il credito nei loro confronti non facendo cose troppo discutibili. Poi sappiamo che il rapporto un po' asimmetrico lo è, ma io personalmente di questo non riesco ancora a fare a meno. Poi, quanto a lui, lo studente B.D. (che non è in una mia classe) mostra coscienza abbastanza per essere credibile quando protesta: scrive articoli sensati (per quanto io non condivida molto di quello che dice) e ha il diritto di assumere posizioni anche abbastanza estreme, visto che il 25 aprile viene in piazza con la bandiera dei “Comunisti proletari per la rivoluzione mondiale” o qualcosa di simile, anche se io penso, per tante ragioni, che il 25 aprile è il caso di andare in piazza solo con la bandiera italiana.

Ho avuto modo a un certo punto di fare due parole con B.D. E ho cercato di dirgli alcune cose. Gli ho chiesto se avrei dovuto minacciare della solita rappresaglia un eventuale gruppo di studenti leghisti che intendessero perdere scuola per partecipare a una manifestazione contro gli immigrati. E quando lui mi ha detto che in quel caso quelli là li avrei dovuti intimidire pesantemente, gli ho spiegato che io minacciavo lui e quelli come lui anche proprio per poter casomai minacciare poi anche la banda eventuale dei leghisti razzisti. Gli ho detto l'argomento del prezzo da pagare, gli devo aver raccontato anche la storia dei molti passati scioperi paraculi di cui credo in Italia ci siano stati dovunque innumerevoli esempi. E poi gli ho raccontato rapidamente una storia che non sapeva: quella di Sandro Gallo, veneziano, laureato in diritto e professore di filosofia, che insegnava al Liceo “Benedetti” e che, quando gli studenti mancavano da scuola per partecipare alle manfestazioni di regime, li interrogava il giorno dopo al ritorno in classe e li segava deliberatamente, segnando sul registro una serie di votacci e in questo modo tirando su, tra parentesi, una classe di seri antifascisti. In carcere e al confino tra il '41 e il '42, dopo l'8 settembre '43 Sandro Gallo va in montagna coi partigiani a combattere e muore il 20 settembre del '44 a Lozzo di Cadore attaccando con altri tre compagni tre autocarri carichi di tedeschi per impedire loro di andare in sostegno ai tedeschi di Lorenzago, a loro volta attaccati dai partigiani. Tanto per dire dello spirito di sacrificio.
Poi c'è un'altra cosa che non ho detto a B.D. ma che mi è venuta in mente leggendo quel bel libro che è L'ora di lezione di Massimo Recalcati (bocciato due volte nel suo percorso da studente e oggi professore universitario), un libro che mi è stato ordinato di leggere dalla studentessa N.V. (“Prof! Deve leggere questo libro!” “Devo?” “Sì, deve!”) e che ho letto con molto interesse. Una delle prime e più semplici cose che dice Recalcati, già nell'introduzione, è di pensare sempre che per gli studenti un'ora passata con lui sia più utile di molte altre occupazioni, compresa ovviamente quella di manifestare pro o contro (di solito contro) qualcosa. Non sono certamente bravo come Recalcati, ma anch'io penso sempre che ho letto molti libri e visto molti film (e pensato e ragionato su di essi), in misura superiore rispetto a quanto farà la maggior parte di loro nella propria vita. E penso che per loro stare con me ad ascoltare, parlare e leggere di queste cose non può essere tempo perso, come spesso (non sempre) credo che invece siano molti dei tempi in cui scelgono cosa fare credendo di essere liberi e regalandosi invece a qualche potente vaccata che abbia il solo pregio e forza di essere in auge in quel mese:
Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali, l’eros. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi? Non è quello che crede ancora che un’ora di lezione possa cambiare la vita? (2)

Oggi al Lido via Sandro Gallo è la lunga e bella strada che dal piazzale Santa Maria Elisabetta va fino a Malamocco lungo il lato che dà sulla laguna, e che passa a un certo punto davanti al campo sportivo delle Quattro Fontane, dove si gioca a rugby e dove a settembre mettono su il tendone per la mostra del cinema. Non voglio dire con tutto questo che quando spavento un po' i miei poveri studenti di campagna mi sento eroico come Sandro Gallo, ci mancherebbe. Ma quando vado in cerca dei miei princìpi, questa è una storia che mi torna in mente e mi serve da orientamento. Perchè, oltre a tutto, il partigiano Sandro Gallo si era scelto come nome di battaglia “Garbìn”, che è il nome di un vento, quello con cui da noi si chiama il Libeccio, il vento che d'estate al sud porta la sabbia dall'Africa e in autunno sulle coste del Tirreno spinge le nuvole e porta la pioggia. Ma, come sempre, la cosa non mi rende affatto sicuro di riuscire poi a capire davvero dove devo mettermi e in che direzione vanno le cose. 
     
(1) Anche la Preghiera di De Andrè, si sa, ha come fonte Alvaro Mutis, autore che conosco pochissimo. Ma è noto che qui De André ci ha messo molto del suo. 
(2) Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Milano 2014, p.8.


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