martedì 28 agosto 2012

AVEVO GIA' SCRITTO TUTTO

Uno pensa a Jack London e gli vengono in mente delle belle storie per ragazzi con avventura e sfida all'ignoto: uomo e animale, uomo e ambiente ostile. Nel quale però è possibile mettersi alla prova e scoprire davvero cosa si è e quanto si vale come uomini. Zanne bianche in foreste cristallizzate dal gelo e richiami che la natura manda a ciò che nell'uomo si cela nel profondo. Occhei. Invece non solo. Se uno legge Martin Eden trova altre cose: non solo la storia semivera e molto personale di come provare
a vivere di letteratura sia, nella più parte dei casi, devastante, ma la rivelazione chiara di come sia imbattibile e capillare la vanità che impera, da un lato 1 - nel mondo editoriale e in quella che solo molti anni dopo qualcuno avrebbe chiamato l'industria culturale, dall'altro (ma questa è cosa più nota e trita che conserva una sua verità ma di fronte alla quale sta ancora, paradossalmente, credo, con qualche ragione, l'incrollabile compattezza del buon senso borghese) 2 - nella società borghese. Un libro fluviale, con parti bislunghe e pesanti, senza tocco e con poca meraviglia e lontano da quella finezza di cui sono capaci scrittori più studiati e meno urgenti. Ma comunque una roba molto potente, capace di confrontarsi, indirettamente ma in modo assolutamente dignitoso, con la cultura europea del '900 e di intravvedere insieme, forse in modo confuso ma comunque con acutezza, da un lato la necessità del nichilismo e dall'altro la fragilità delle sue radici. In sostanza la storia di un genio, che lotta per diventare un genio e per affermarsi come genio con la verità della propria esperienza e ispirazione senza scendere realmente a compromessi. Un genio al quale questa lotta costa tanto che, una volta ottenuta l'affermazione, arriva a decidere che il sangue versato è comunque troppo e a pensare che non ne valeva la pena e a rinunciare al successo. Un genio che prima della sua epifania finale, diritta e scintillante quanto torbida e angosciosa, si disfa delle risorse che la fortuna e il successo gli hanno procurato per risolvere la vita a quelli la cui vita può essere risolta dalle risorse. Un genio per il quale la rivelazione della vanità delle cose si condensa nella prova definitiva di quanto gli uomini siano ciechi nel loro giudizio sul valore delle cose, prova fornita da un successo che arriva quando non serve più, dopo essersi negato ostinatamente (e forse fatalmente) per tutto il lungo tempo in cui la sua ombra avrebbe dato un senso alle cose e avrebbe dimostrato, al contrario, che nell'umanità alberga un fondo di senso comune vero e che le persone meritano di vivere e non di essere distrutte.
Invece l'umanità non ha meriti, né dignità, né ragionevolezza. L'uomo Martin Eden accoglie il riconoscimento del proprio valore come la dimostrazione definitiva della deficienza della specie umana e dell'inutilità della civiltà. Il Martin premiato dal pubblico sa di essere uguale o peggio rispetto al Martin misconosciuto. E continua a ripetere tra sé che la forza che era in lui e che ha dato vita alle sue opere è esaurita, morta, non ce n'è più, mentre quando ce n'era nessuno sapeva che farsene. Dice: “AVEVO GIA' SCRITTO TUTTO” (“YET IT WAS WORK PERFORMED”). Lo ripete 11 volte nel cap 44. Le ho contate.

A.S. (Ante Scriptum) Anche qui, volendo raccontare qualcosa di quello che si legge (non dico di quello che si studia, ci fosse tempo e modo per studiare sul serio... il fatto di poter studiare a tempo pieno è un grandissimo privilegio di cui, come di tante altre cose, quando si ha modo e tempo di farlo non ci si rende conto della fortuna che si ha... potessi averla ancora sul serio per un po' di tempo...). Dicevo: volendo raccontare qualcosa di quello che si legge non c'è modo di dare sistema alla cosa: tanto vale partire dall'ultima cosa che si è letta e poi andare avanti come si riesce, altrimenti non ci si mette mai. Intanto allora ho cominciato.

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