Sandro Gallo - "Garbìn" |
Dove
tira il vento? Non è facile capire. Non è per praticare la virtù
meschina di chi riesce a farsi portare avanti senza metterci del
proprio e fare la fatica che deve. Ma se non ti rendi conto della
direzione che le cose prendono corri il rischio di lottare tutto il
tempo contro una forza troppo più grande della tua, abbastanza da
togliere senso e utilità a qualsiasi cosa tu possa fare. Alla
bellissima smisurata preghiera di De André (1) che si posizionava per principio
in direzione ostinata e contraria preferisco tutto sommato il
ragionamento, apparentemente più dimesso, secondo cui si poteva
accettare di morire per delle idee, vabbè, ma di morte lenta
(ragionamento che in realtà, si sa, prima che di De André era di
Georges Brassens).
Di
questi tempi del resto abbiamo la fortuna di dover combattere
battaglie per le quali in genere il prezzo non è la pelle. Ma
naturalmente dal dubbio su quale sia di volta in volta la decisione
giusta da prendere non ci si libera mai. Guardi la situazione e dici:
“Sì, ecco, si fa così. Mi pare”. Sei convinto. Abbastanza. E'
un problema simile ad altri che hai affrontato e ti sembra di aver
avuto la riprova, poi, che andava bene come hai fatto: ti senti a
posto. Poi però ogni tanto guardi avanti, perchè sai che quel
problema è collegato a tanti altri e non si può decidere sempre in
base a un'occhiata a quello che hai sotto il naso. Allora cerchi di
capire cosa potrebbe succedere fra un po' di tempo, quando si saranno
fatti altri passi e le cose cambieranno in modi che adesso forse non
riesci neanche a immaginare. Anche quello ti è successo: che hai
detto “Eh, se avessi saputo dove andavano le cose, forse quella
volta non avrei detto (o fatto o deciso...). Quella volta forse ho
sbagliato”.
Normale,
probabilmente banale: cose che toccano tutti i giorni o tutte le
settimane, come fare la spesa e pulire casa. Ma è attraverso queste
scelte che ti misuri con te stesso e decidi nell'insieme chi sei:
quando tocca alzare la testa e guardare in fondo, in prospettiva,
l'orientamento del tuo naso dipende in genere da quelle tre-quattro
idee di base che ti foderano lo stomaco e i polmoni e che di solito
la gente chiama: princìpi. Ogni tanto occorre tornare a vedere come
sono fatti e cercare di capire come si possono mettere giù rispetto
alle questioni di cui ti devi occupare. E' qui che vorresti saper
capire dove tira il vento. Dove va la storia, potremmo dire, se
l'enfasi non ci facesse un po' paura.
Ogni
tanto gli studenti manifestano. Ma noi stiamo tra la Marca e il
Patriarcato di Aquileia, quindi il fenomeno si verifica di rado ed è
di entità decisamente modesta: la grazia o il tedio a morte di
vivere in provincia, direbbe il poeta. Però ogni tanto succede.
Potrebbe anche essere una buona cosa, ma mi sono abituato a dubitarne
per esperienza: anche facendo la tara del tempo passato e del
cambiamento dei costumi, la gente dai sedici ai diciotto che in
genere ho sottomano io, quanto a coscienza politica spesso non regge
il confronto con un paracarro. Nessun disprezzo: è certamente –
appunto – soprattutto il segno dei tempi. Casomai un po' di
rammarico. Insegnando, dei semi cerco di buttarli. E riesco a farlo –
direi – restando ben lontano (non è poi difficile) da qualsiasi
sospetto di indottrinamento. Ma funziona poco: forse i semi non sono
buoni oppure sono maldestro io nel gesto del seminatore. Me lo
chiedo: altri dubbi. Ma non è questo il punto.
Il
punto è che quando nell'amena provincia qualche studente si vuole
mobilitare e comincia ad agitarsi, io tendo in genere ad assumere per
abito un'attitudine prudentemente minacciosa. Voglio impedire agli
studenti di crescere e acquistare quella coscienza di cui poi tanto
ipocritamente altrove deploro la mancanza? Qualcuno pensa di sì. Lo
studente B. D., sul giornalino di istituto, prima richiama l'articolo
21 della Costituzione, poi scrive: per
queste motivazioni nessun professore può impedire la partecipazione
a manifestazioni studentesche, minacciando brutti voti
o ricattando in altro modo. Credo
giustappunto di essere il professore in questione. Ricatto? In genere
dico pressappoco che, anche se mi rimane in classe uno studente solo,
io faccio lezione e poi mi premuro, quando interrogherò, di
verificare che chi era assente quel giorno si sia messo in pari con
gli argomenti trattati. Non è una minaccia terribile, ma è
certamente una minaccia, sono d'accordo. E scrivo e sottoscrivo che
ci sta e che sono perfettamente convinto che sia il minimo che è
giusto fare in queste occasioni.
Potrei,
per spiegare le mie ragioni, raccontare brevemente quello che
succedeva nella mia scuola fino a non molti anni fa. Verso i primi
soli, inizio marzo, e in genere in giorni di fine settimana, quasi
sempre il sabato, molti studenti arrivavano a scuola ma poi non
entravano. Restavano all'esterno fino al suono della campana e poi
anche a quel punto rimanevano fuori con le mani in tasca, per poi
cominciare pochi alla volta ad avviarsi verso i bar del centro.
Facevano sciopero, secondo loro. Le prime volte sono rimasto basito e
non ho reagito subito, poi ho cominciato ad andare a parlarci per
sapere. E, al di là del fatto che quasi mai queste tranquille
agitazioni paracule avevano uno straccio di collegamento con
manifestazioni indette ufficialmente per ragioni serie a livello più
o meno generale (nazionale, provinciale...), anche le motivazioni
addotte per la situazione specifica della mia scuola erano tali da
suscitare reazioni tra lo sdegno e l'ilarità. L'esempio che ricordo
è quello, una volta, della mancata asfaltatura del vialetto di
accesso alla scuola. Forse sarà il caso più idiota, ma mi pare che
in altri casi le ragioni non erano molto più consistenti.
A
me veniva più facile lo sdegno. Ho cominciato a discutere
animatamente e a ricordare cosa era il diritto di sciopero e come si
era arrivati ad ottenerlo e a che prezzo, nel mondo e in Italia. Non
serviva gran che: qualcuno forse si sentiva un po' in imbarazzo, ma i
più se ne fregavano. Allora ho cominciato ad andare a cercarmi i
miei e, semplicemente, a intimare loro di andare in classe e di non
perdere tempo in cazzate. Non servivano minacce particolari, si
capiva che pensavo che stessero facendo una grossa idiozia che
trovavo seriamente spregevole. Una volta (piccola soddisfazione che
mi era passata di mente, me lo ha ricordato molti anni dopo lo
studente S.) una signora che assisteva alla scena dal balcone ha
applaudito il mio discorso mentre gli studenti delle mie classi
cominciavano a entrare.
Non
ricordo bene in che modo col tempo la cosa sia cessata. E' stata una
piccola battaglia, che probabilmente qualche mio collega ha
supportato in qualche modo, non mi pare proprio di aver fatto tutto
da solo. Il residuo della faccenda, oggi, è “la giornata della
creatività”, in cui gli studenti si dedicano ad attività
autogestite. Che però, come ha recentemente osservato Teresa, di
solito da noi sono attività che troverebbero collocazione più degna
al GREST: si fanno decorazioni in pasta fillo (!), preparazione di
dolci, musica rock eccetera: quasi qualsiasi cosa, purchè non si
tratti – diciamo – di roba culturale e tantomeno attinente a
qualche genere di disciplina curricolare (che so, seminari di storia
contemporanea o reading di letteratura e poesia magari in lingua
originale o esperienze di laboratorio magari con docenti esterni...
solo per dire cosa ad esempio si fa in altre scuole).
Potrei
raccontare, dicevo, quello che succedeva una volta nella mia scuola.
Ma non serve. Invece porto a sostegno del mio atteggiamento un
argomento semplice con il quale anche di fronte agli studenti
giustifico – se ci riesco – le mie minacce: se io protesto devo
pagare un prezzo, altrimenti che protesta è? Se la modalità della
protesta comporta dei vantaggi per me, tipo saltare le lezioni, non
sono credibile. Così mi limito, in realtà, a rompere un po' le
balle pretendendo che, se proprio gli studenti vogliono protestare,
almeno mi dimostrino un po' di serietà e consapevolezza. E rompo le
balle costringendoli a pagare un piccolo prezzo e ammonendoli che,
nel rapporto che si crea in classe, il fatto che non facciano vaccate
è una delle cose che può permettermi di dare loro credito,
esattamente come io devo guadagnarmi il credito nei loro confronti
non facendo cose troppo discutibili. Poi sappiamo che il rapporto un
po' asimmetrico lo è, ma io personalmente di questo non riesco
ancora a fare a meno. Poi, quanto a lui, lo studente B.D. (che non è
in una mia classe) mostra coscienza abbastanza per essere credibile
quando protesta: scrive articoli sensati (per quanto io non condivida
molto di quello che dice) e ha il diritto di assumere posizioni anche
abbastanza estreme, visto che il 25 aprile viene in piazza con la
bandiera dei “Comunisti proletari per la rivoluzione mondiale” o
qualcosa di simile, anche se io penso, per tante ragioni, che il 25
aprile è il caso di andare in piazza solo con la bandiera italiana.
Ho
avuto modo a un certo punto di fare due parole con B.D. E ho cercato
di dirgli alcune cose. Gli ho chiesto se avrei dovuto minacciare
della solita rappresaglia un eventuale gruppo di studenti leghisti
che intendessero perdere scuola per partecipare a una manifestazione
contro gli immigrati. E quando lui mi ha detto che in quel caso
quelli là li avrei dovuti intimidire pesantemente, gli ho spiegato
che io minacciavo lui e quelli come lui anche proprio per poter
casomai minacciare poi anche la banda eventuale dei leghisti
razzisti. Gli ho detto l'argomento del prezzo da pagare, gli devo
aver raccontato anche la storia dei molti passati scioperi paraculi
di cui credo in Italia ci siano stati dovunque innumerevoli esempi. E
poi gli ho raccontato rapidamente una storia che non sapeva: quella
di Sandro Gallo,
veneziano, laureato in diritto e professore di filosofia, che
insegnava al Liceo “Benedetti” e che, quando gli studenti
mancavano da scuola per partecipare alle manfestazioni di regime, li
interrogava il giorno dopo al ritorno in classe e li segava
deliberatamente, segnando sul registro una serie di votacci e in questo modo tirando su, tra parentesi, una classe di seri antifascisti. In
carcere e al confino tra il '41 e il '42, dopo l'8 settembre '43 Sandro Gallo va
in montagna coi partigiani a combattere e muore il 20 settembre del
'44 a Lozzo di Cadore attaccando con altri tre compagni tre autocarri
carichi di tedeschi per impedire loro di andare in sostegno ai
tedeschi di Lorenzago, a loro volta attaccati dai partigiani. Tanto
per dire dello spirito di sacrificio.
Poi
c'è un'altra cosa che non ho detto a B.D. ma che mi è venuta in
mente leggendo quel bel libro che è L'ora di lezione di Massimo Recalcati (bocciato due
volte nel suo percorso da studente e oggi professore universitario),
un libro che mi è stato ordinato di leggere dalla studentessa N.V.
(“Prof! Deve leggere questo libro!” “Devo?” “Sì, deve!”)
e che ho letto con molto interesse. Una delle prime e più semplici
cose che dice Recalcati, già nell'introduzione, è di pensare sempre
che per gli studenti un'ora passata con lui sia più utile di molte
altre occupazioni, compresa ovviamente quella di manifestare pro o
contro (di solito contro) qualcosa. Non sono certamente bravo come
Recalcati, ma anch'io penso sempre che ho letto molti libri e visto
molti film (e pensato e ragionato su di essi), in misura superiore
rispetto a quanto farà la maggior parte di loro nella propria vita.
E penso che per loro stare con me ad ascoltare, parlare e leggere di
queste cose non può essere tempo perso, come spesso (non sempre)
credo che invece siano molti dei tempi in cui scelgono cosa fare
credendo di essere liberi e regalandosi invece a qualche potente
vaccata che abbia il solo pregio e forza di essere in auge in quel
mese:
Se
tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il
ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati
(tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che
salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le
amicizie, le scoperte intellettuali, l’eros. Un bravo insegnante
non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi? Non è quello
che crede ancora che un’ora di lezione possa cambiare la vita? (2)
Oggi
al Lido via Sandro Gallo è la lunga e bella strada che dal piazzale
Santa Maria Elisabetta va fino a Malamocco lungo il lato che dà sulla
laguna, e che passa a un certo punto davanti al campo sportivo delle
Quattro Fontane, dove si gioca a rugby e dove a settembre mettono su il tendone per la mostra del cinema. Non voglio dire
con tutto questo che quando spavento un po' i miei poveri studenti di
campagna mi sento eroico come Sandro Gallo, ci mancherebbe. Ma quando
vado in cerca dei miei princìpi, questa è una storia che mi torna
in mente e mi serve da orientamento. Perchè, oltre a tutto, il
partigiano Sandro Gallo si era scelto come nome di battaglia
“Garbìn”, che è il nome di un vento, quello con cui da noi si
chiama il Libeccio, il vento che d'estate al sud porta la sabbia
dall'Africa e in autunno sulle coste del Tirreno spinge le nuvole e
porta la pioggia. Ma, come sempre, la cosa non mi rende affatto
sicuro di riuscire poi a capire davvero dove devo mettermi e in che
direzione vanno le cose.
(1) Anche la Preghiera di De Andrè, si sa, ha come fonte Alvaro Mutis, autore che conosco pochissimo. Ma è noto che qui De André ci ha messo molto del suo.
(1) Anche la Preghiera di De Andrè, si sa, ha come fonte Alvaro Mutis, autore che conosco pochissimo. Ma è noto che qui De André ci ha messo molto del suo.
(2) Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Milano 2014, p.8.
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