L'ospedale di Motta sommerso dall'alluvione del '66 |
Da dove
ci troviamo adesso, distanza ragguardevole, sembra che la relativa
semplicità della realtà di allora permettesse loro di organizzare
più facilmente la propria esistenza intorno a quella che potremmo
chiamare una vocazione. Come se la gamma ristretta di alternative in
campo li aiutasse a non sprecare tempo e forze a chiedersi che cosa
fare: le vite possibili erano quelle (differenze abbastanza nette,
poche sfumature...) e la decisione di entrare dentro a una piuttosto
che a un'altra si prendeva in modo naturale, in base a propensioni
nate presto o sotto una spinta dell'ambiente che risultava
determinante ma spesso non era sentita come una violenza. E questo
sembrava valere anche per altre questioni capitali della vita: tipo
sposarsi e fare figli, avere a che fare con la politica e lo stato,
eccetera.
So di aver invocato quella
specie di semplicità, che mi è sempre parsa dirittura e rettitudine
insieme, in circostanze in cui avevo da fare delle scelte importanti.
Non so se l'ho trovata, se ne ero degno, o se magari è stato un
errore pensare di poter trovare così un orientamento anche in questo
presente aggrovigliato. Non sottovaluto la complessità del passato e
non mi sembra di farne un mito né di dimenticare le tante ragioni
per cui invece so bene di preferire, di molto e per molti aspetti, il
digitale al cartaceo. Però credo che davvero qualche decennio fa le
basi antropologiche del nostro comportamento fossero un po' diverse.
Non so se migliori, forse la domanda è oziosa. Ma mi è venuto
spontaneo voltarmi da quella parte quando mi è sembrato
indispensabile provare a ridurre la complessità di quello che avevo
davanti per arrivare a qualche sintesi, pur con la fretta e
l'approssimazione che la vita ci impone tutte le volte che le
questioni urgenti ci forzano a rinviare o costringere quelle
decisive.
Ho
ripensato a questo in questi giorni di pioggia continua che ci hanno
fatto un po' di paura, andando a rileggere con attenzione e affetto
il racconto del dottor Piero Sanchetti sull'alluvione del '66 a Motta
(Cronache
dell'alluvione,
scaricare e leggere). Non è solo perchè Sanchetti era collega e
amico di mio padre tanto da dedicargli un angolino di questa
apocalisse di provincia. Mi sembra piuttosto che, come in molte delle
cose che Sanchetti ha scritto (alcune delle quali ha avuto la
gentilezza di passarmi parecchio tempo fa), in queste pagine ci sia
dentro non solo la verità di un'esistenza integra e onesta fino al
midollo, capace di una devozione esemplare verso il lavoro e le
persone, di famiglia e non, ma la verità di un tempo che sta appena
qui dietro e di cui la nostra dannata (in)civiltà non è stata gran
che capace di conservare una traccia consistente, un'eredità di
qualche peso. Un tempo in cui non solo gli analisti di laboratorio in
ospedale, ma un po' tutti (gli altri medici, le infermiere, gli amici
architetti, i barcaioli di laguna, gli ex-fochisti, le suore...) si
sono costruiti con la vita una sapienza che permette loro di sapere
magari poche cose ma quelle poche con certezza. Gente che si prende
la responsabilità di fare una cosa solo se la sa fare e se no dice
di no, che non la fa. Ma, se la fa, la fa bene e si può star sicuri
che non fa un gesto di troppo, come i bravi artigiani, come il meccanico di Pirsig che sa
esattamente quanto stringere il bullone: abbastanza perchè non resti
lasco ma insieme non troppo da sforzare la filettatura della vite
(1). E mi sono tornate in mente le diagnosi
degli storici sugli anni in cui questa saggezza delle mani e dei
gesti, primitiva ma niente affatto elementare, si è persa: sul come
e quando, nel nostro paese, il tentativo di fare un passo avanti
decisivo verso la modernità e lo sviluppo ha dato come esito una
perdita e una dissipazione niente affatto fatali ma attribuibili a
scelte, comportamenti e responsabilità precise (ne ho parlato un po' QUI e nei post successivi).
Ma,
al di là di questa ulteriore ragione per dispiacermi del presente,
dispiacere che non so se contribuirà a darmi un po' di spinta per
continuare a lavorare all'impresa ciclopica di fare il pochissimo che
mi è possibile per cambiare le cose (credo di no, in questi giorni
se c'è una cosa che mi manca è proprio quella spinta...) trovo che
il racconto di Sanchetti sia bellissimo, che racconti la peggiore
catastrofe recente del nostro piccolo territorio esattamente con lo
sguardo e l'attitudine del povero Cristo che lavora, aspetta con
fiducia e poi, pur non capacitandosi del fatto che tutto quello che
poteva andare storto è andato storto, continua a lavorare e ad
aspettare con fiducia, prendendosi sul collo tutti i pesi che deve e
magari qualcuno in più e facendosi poi anche l'esame di coscienza per
vedere se ancora ha mancato in qualcosa. Ma a piacermi tanto non è
solo questa struttura morale solida, che è il fondamento di quella
semplicità di cui dicevo sopra e che mi pare una delle virtù
migliori che una volta avevamo qui, adesso convertita da tempo nel
trinomio maledetto lavoro-figa-schei,
del quale ci siamo ubriacati, qualche anno fa (quando le cose
andavano bene e avremmo potuto davvero usare di quella fortuna per
diventare più civili) senza poi riuscire più a snebbiarci il
cervello neanche adesso che a tanti tocca davvero tirare la cinghia.
Mi piace anche il modo in cui Sanchetti ha studiato da dottore e ha
fatto del suo laboratorio la sua camicia e canottiera per tutta la
vita, come non solo si capisce dal racconto ma si sa anche per certo
come cosa nota. Perchè intanto ha studiato sul serio anche il resto, nelle scuole durissime di quei tempi, spesso massacranti ma a volte
capaci di svegliare davvero gli ingegni riempiendoli di possibilità
e poteri. Un dottore indiscutibilmente dedito, al quale però il suo
mondo ha messo in mano anche degli strumenti di analisi di altro
genere, che lui ha saputo usare, mi pare, con una finezza non comune,
in modo per niente banale ma senza vanità né compiacimento,
proporzionando bene l'intarsio dello stile secondo il bisogno e la
ricerca della profondità. Non la faccio lunga: credo che se si legge
si capisce subito cosa intendo. E dico che dovremmo ringraziare più
spesso chi è riuscito a condensare con tanta onestà quanta
precisione il senso di alcuni dei passaggi decisivi della nostra
storia, nostra nel senso che è successa qui, nei posti dove tutti i
giorni respiriamo e camminiamo per strada.
Per
questo metto in rete il racconto: fino a qui non lo si trova, per
quanto mi risulta. Penso che dovremmo farlo girare quanto possibile e
fare in modo che dalle nostre parti non ci sia nessuno che non lo
abbia letto (un po' come penso che nessuno qui in Veneto dovrebbe
stare senza leggere Meneghello – più ancora che Zanzotto). Poi
chiederò il permesso e, se posso, aspetterò aprile per mettere in
rete anche il suo racconto, altrettanto bello, della morte dell'amico
Giovanni Girardini, partigiano impiccato dai nazisti per rappresaglia
a Oderzo nel settembre del '44 con Bruno Tonello.
Credo
che uno scrittore di provincia così bravo sia una benedizione. Tanto
più se, come in questo caso (in cui pure tra le parole filtra
continuamente e sedimenta in fondo un precipitato denso di
cattolicesimo) si capisce che chi scrive sente, come si dice facciano
più dichiaratamente i cristiani del nord Europa, che ogni gesto
delle sue mani al lavoro, ogni momento della sua vita,
ogni rapporto con gli altri è una preghiera, probabilmente del tipo di cui Dio tiene conto di più.
(1)
Il riferimento è a Robert M. Pirsig e al suo Lo
Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.
(2) L'ultimo grosso rischio
che la Livenza ha fatto correre a Motta, prima dell'ansia di questo
febbraio, è stato tre anni fa, nell'autunno del 2010. Da un po' di
anni abbiamo sempre un po' di paura, più che in passato. Ne parla
bene Fabio Franzin, che quella volta ha girato agli amici i suoi Dispacci dalla Livenza. Metto in rete anche quelli, poi gli
chiederò il permesso.
Dax, ma qualcuno lo ha mai pubblicato, fuori da internet intendo, quel racconto? Posso mettere il link su facebook? È bellissimo, è una cosa che vorrei che fosse letta, e riletta, e ricordata quando piove...
RispondiEliminaCiao Maria. Sentirti è sempre un grande piacere. Metti pure il link dove vuoi. Il racconto è stato pubblicato quasi solo in quelle riviste di medici scrittori che una volta poi si usavano per le sale d'aspetto degli ambulatori, e poi in qualche pubblicazione locale. Ho parlato oggi col dottor Sanchetti che ha 90 anni ma sta bene e mi dice che... "legge molto". Gli ho detto che qualcuno dovrebbe raccogliere almeno una buona parte delle cose che ha scritto e farne qualcosa di serio. Avessi tempo ci proverei, forse cercherò il tempo e ci proverò.
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