Questo post è una risposta a questo articolo di Mauro |
Ciao
Mauro.
(1)
Sottoscrivo
e mi auguro che tu abbia il più possibile ragione nell'impostare la
questione in termini risolutamente morali.
Naturalmente uno si sente
di sottoscrivere presumendo di sé, vale a dire considerandosi
sostanzialmente immune dal difetto di cui si parla e quindi titolato
a parlare: non fosse altro che per il fatto – esempio a caso – di
essersi scelto una moglie che nei periodi impegnativi tende a dare
segni di insofferenza e costringe ad esercizi di pazienza
supplementari (che poi chissà a quali esercizi quotidiani quell'uno
costringe lei, la moglie, a partire dai biblici (2) calzini lasciati
in giro e da mille altre microdisattenzioni). Ma al di là della
pulizia della mia coscienza in merito alle microviolenze quotidiane
di cui tu ragioni, mi è capitato in passato di pensare, in modo mi
pare abbastanza simile a te, che nessun male è giustificato. Anche
ammesso che ci sia un legame tra il male che si subisce e quello che
si fa, nel senso che il primo spiegherebbe in parte il secondo, anche
senza scusarlo, l'impressione è che non ci sia mai una ragione
sensata per aumentare gratis la quantità di dolore presente nel
mondo: “E' già parecchio il male che ha delle ragioni più o meno
fatali per pretendere di essere sopportato, quindi vedi di non
aggiungerne dell'altro anche perchè sai che, per quanto ti abbiano
trattato male, trattare male me non ti farà star meglio”. Questa
mi è sempre sembrata l'esperienza decisiva: prendersela con gli
altri non dà nessun sollievo, a volte neanche se questi altri
c'entrano e hanno delle responsabilità, figuriamoci se non c'entrano
per niente. La prima cosa che mi viene in mente in proposito è la
nota riflessione di Carlo Maria Cipolla (3) sulla stupidità umana,
in particolare la fondamentale (“aurea”) terza legge
secondo cui
“Una
persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona
o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per
sé od addirittura subendo una perdita”.
Mi è sempre piaciuto questo criterio econometrico, che oltre ad
essere elegante ti para anche il culo di fronte a chi ti
rinfaccerebbe del moralismo astratto se tu chiamassi in causa
principi assoluti di ascendenza baltica (che pure a me non sembrano
molto diversi: basta assolutizzare il criterio econometrico chiamando
in causa robe molto generali come “l'uomo” e più o meno ci
siamo, mi pare...).
E'
in base a questo principio che ho sempre cercato di far ragionare
chiunque provasse a fare di me il terminale di uno sfogo emotivo (in
sé più o meno giustificato). “Non sfogarti – mi è capitato di
dire più o meno – non rovesciarmi addosso tutto il male che hai
accumulato subendolo, tutta la sfiga di cui gli dei ti hanno reso
oggetto e che ti getta nella disperazione (4). Non raccontarmi tutto
insistendo sui dettagli strazianti ed entrando nelle pieghe della tua
sofferenza, non descrivermi le tue ferite con ricchezza di
particolari. Ok, posso capire che tu voglia farmele vedere, le
ferite, anche solo per sapere che c'è qualcuno che ha il coraggio di
guardarti e ti accetta anche conciato così, ma poi basta. Non
chiedermi di prendermi sulle spalle la tua esistenza, cosa che si può
fare forse, al massimo, per una persona sola una volta nella vita
(per un figlio, per una donna, per un amico...) e che in genere – a
chi pensi di poter affrontare la sfida – costa la propria, di vita.
Chiedimi qualcosa che posso fare senza morire: ti faccio una torta,
una minestra, una pastasutta,
ti compro quello che vuoi, ti porto al cinema. Ti ascolto anche,
naturalmente, per tutto il tempo che vuoi, ma non se ti limiti a
sfogarti e basta, devi dirmi qualcosa che ci permette di pensare a
cosa fare stasera, domani, la settimana prossima, di pensare a
qualcosa da fare insieme per far passare il tempo, che altrimenti non
passa se resti solo a guardare la catastrofe a occhi sbarrati”.
Non
so se lo sfogo radicale può essere considerato un esempio
pertinente, collocabile accanto alle forme di micromalvagità di cui
dici tu (Mauro). A me sembra di sì, mi pare che si configuri in entrambi
i casi una variante del fenomeno sociologico della chain
of screaming
di cui tutti abbiamo esperienza. E mi sembra vero che, dove non c'è
di mezzo una questione di autentica giustizia, di riequilibrio dei
torti, l'unica reazione possibile è quella della desistenza
pacifica, del disarmo unilaterale, della pace interiore da
salvaguardare anche a costo di assumere l'apparenza del debole.
Quando da piccoli ci facevano qualcosa di male e volevamo reagire, la mamma ci
prendeva e ci tirava in parte dicendoci che la brutta figura la faceva
l'altro, il prepotente e maleducato. A noi sembrava un cazzo: noi
volevamo pestargli la faccia a quell'odioso bastardo, e farci
trascinare via ci pareva un sopruso intollerabile, oltre che una
vergognosa ammissione di debolezza. E invece la mamma aveva ragione,
in sostanza, perchè, a paragone del fumo della vendetta
indiscriminata, la tranquillità dell'animo è tutto oro da
preservare e risparmiare e non buttare via per ragioni futili.
Dunque
secondo me hai tutte le ragioni. O quasi. Perchè naturalmente resta,
estremo e forse insormontabile, il dubbio del cannibale. Hai presente
Il
silenzio degli innocenti (5)
?
Il film in cui la giovane poliziotta Starling scopre il terribile
assassino seriale delle giovani donne grazie all'aiuto del mostruoso
pluriomicida e cannibale Dr. Lecter, che, pur essendo ormai in
carcere a vita, intanto cerca comunque di servirsi di lei per mettere
ancora una volta in atto i propri piani diabolici. Forse ricordi che
nel momento decisivo, in cui il mostro fornisce alla poliziotta
l'indizio chiave per arrivare all'assassino, le chiede qualcosa in
cambio, le fa delle domande, vuole sapere di lei. Così la costringe
a una specie di scavo angoscioso che la riporta alla radice delle sue
scelte fondamentali, in particolare della scelta di dedicare la
propria vita a ripercorrere le orme del papà poliziotto ucciso
eroicamente in servizio. E alla fine lei confessa che la ragione
vera, ultima e profonda della sua dedizione alla lotta contro il male
è una specie di istinto irragionevole, niente affatto morale, niente
affatto buono in sé. Da piccola orfana Starling era stata mandata a
vivere nella fattoria degli zii. Che allevavano bestiame, tra cui
agnellini. E che periodicamente macellavano gli agnellini suddetti,
di cui la bambina sentiva i belati di disperazione nell'imminenza
della morte. Con lo sguardo del mostro fisso negli occhi la
poliziotta ammette che è il suo istinto più profondo, non un
imperativo etico o un impulso ragionato verso la giustizia sociale, a
spingerla a combattere il crimine. E nello sguardo del mostro lei
legge: “Tu sei come me, non sei migliore: che io ammazzi la gente
per mangiarla e tu cerchi di salvarla non fa differenza. Seguiamo
entrambi un impulso profondo e incontrollabile: che il mio non sia
socialmente accettato e il tuo sì non fa differenza rispetto al
bene e al male, che naturalmente non esistono”. Starling andrà
avanti da brava poliziotta, continuerà a lottare concentrata e
inflessibile, ma ormai il dubbio le è venuto e l'innocenza è
perduta, glielo si legge in faccia, e questo vale anche per noi
spettatori ai quali però il dubbio sull'origine della morale è già
venuto perchè in fondo qualche pagina dell'amigo
de Zaratustra l'abbiamo
letta e due pensieri sopra ce li siamo fatti.
Insomma,
io continuo a essere d'accordo con te, in sostanza. Ma questo del
cannibale è un argomento difficile da smontare. Mi ricordo che una volta
a un matrimonio ho quasi litigato con uno più o meno della mia
età che sosteneva che chi insegna è giusto che sia destinato a
quella specie di marginalità sociale in cui il mondo di oggi lo
mette. Diceva pressappoco che se io ero così pieno di scrupoli da
voler fare un mestiere come quello del profio, con una ricaduta
sociale e delle implicazioni etiche evidenti e rilevanti, erano un
po' cazzi miei. Lui, che faceva il professionista e che nella sua
professione poteva avere molti meno scrupoli ricavandone molti più
guadagni, poteva tranquillamente ciavarsene delle mie difficoltà e
della difficoltà della scuola e della società. Le quali non avevano il diritto di
chiedergli quasi nulla, tantomeno del denaro in più a cui attingere
attraverso le tasse: io potevo fare il buono tranquillamente visto
che mi stava bene, che era, forse, la mia natura (la mia
debolezza); lui aveva il diritto di fare il cattivo secondo istinto e
di rampare nel mondo degli affari straciavandosene dei bisogni del
mondo e della fragilità dei fragili. Non si esprimeva in modo
così brutale, naturalmente, ma la sostanza del suo discorso era
questa, e per quanto apparisse una persona civile e anche simpatica
(così spesso simpatici i bastardi, eh?) a me era venuto l'istinto di
rovesciargli in faccia una delle vantiere
di antipasti che costituivano il buffet. Non l'ho fatto non solo per
non dare scandalo ma soprattutto, come dicevo, per restare in pace
con me stesso. Ma anche per non contraddirmi: uno degli scopi
precipui della bastardaggine del bastardo è proprio farti sbroccare,
così può dimostrare, secondo lui, che tu la smeni tanto col bene e
la giustizia ma in realtà sei una bestia violenta come tutti, solo
non hai il coraggio di cacciare e sbranare come sarebbe nella tua
natura e per questo meriti – fatalmente accadrà – di soccombere
e magari di estinguerti. Molto niciano, come si diceva. E mette
dentro un'incertezza di cui non ti liberi. Secondo me alla fine un
argomento c'è: ha a che fare con l'inderogabile necessità, che
abbiamo esistendo, di comunicare con gli altri: ne parla, per quanto
in termini soprattutto drammatici, diversa gente, soprattutto dagli
esistenzialisti in poi. Ma non è un argomento conclusivo. E qui l'ho
fatta ormai abbastanza lunga, quindi di questo certamente altrove e
chissà. Ma intanto non possiamo fare altro che continuare, come
Starling, a lottare contro
il male e la malvagità, senza paura e con furore,
sapendo bene che mentre noi ci diamo da fare come riusciamo per non
fare torto e patirne il meno possibile, drio
el canton de la strada
potremmo vedere il dr. Lecter cannibale che ci spia e ridacchia
prendendoci per il culo tra sé e sé per la nostra vana applicazione
al bene. E ci tocca anche sopportarlo: ride, 'sto pezzo di merda e
non possiamo farci niente. E' già tanto se, per suo capriccio, ci fa
la grazia di rinunciare a saltarci addosso e farci a pezzi per
mangiarci. Il giorno che si deciderà a farlo potremmo provare a
chiamare in nostro aiuto l'uomo
tigre,
ma dubito molto che il soccorso arrivi.
(1) Questo post contiene un pesante spoiler del film “Il silenzio degli innocenti”. Dubito che fra i pochi che passano di qui ci possa essere qualcuno che non lo ha ancora visto. Ma non si sa mai.
(2)
Sono quelle cose da libro della Genesi su cui si fondano gli
stereotipi di genere nella loro eterna verità: “e il tuo uomo
guarderà lo sport in canottiera”; “e la tua donna ti porterà
all'IKEA e ti farà montare e spostare infinite volte l'arredamento
di casa”...
(3)
Il famoso breve saggio di Cipolla si può leggere a questo link.
(4)
Della disperazione e della sua probabimente inevitabile illegittimità
ho parlato un po' QUI.
(5)
Tutti ricordano il film di Jonathan Demme del 1991, con Jodie Foster
nella parte dell'agente Clarice Starling e Anthony Hopkins nella
parte del cannibale Hannibal Lecter.
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