domenica 17 marzo 2013

CON L'AMORE SI PAGA

Stai seduto dietro a quel banco e pensi che ti stai rompendo e che questa lezione di storia (fisica inglese arte italiano...) è una vera palla e non finisce più, e che vorresti essere quasi dovunque fuorchè dove sei, per esempio in moto o su qualche campo a correre o sul viale a passeggiare o abbracciato a Lei, una precisa o una qualunque. Mentre pensi questo e io provo a raccontarti delle cose interessanti senza spogliarle di tutto il loro interesse, ti leggo in faccia quello che pensi: fastidio e assenza.
In questo momento, in tutti i momenti come questo, a me viene in mente che c'è una cosa di cui non ti rendi conto, e cioè che, va bene, io ho le mie responsabilità, fondamentali, se e quando non riesco a mettere un po' di vita nel lavoro che facciamo (dovremmo fare) insieme. Ma un po' ne hai anche tu, perchè la quantità di energia che mi resta, che riesco a trasformare in forza e passione da usare in classe, dipende, oltre che da mille altri fattori, anche da quanto nel tempo cento e mille studenti come te mi hanno logorato, hanno sfilacciato giorno dopo giorno la mia capacità di tenere botta e recuperare.
Non cerco alibi: la responsabilità è mia e lo so. Dopotutto, se dico di essere un professionista devo sapere che il mio mestiere è fatto forse in primo luogo di questa lotta quotidiana di cui torno sempre a parlare. E del resto è così, più o meno, in tutti i mestieri. Non sono io quello che dice che insegnare è un lavoro che ci si prepara e si impara a fare, che non è questione di magia o carisma ma di serietà e intelligenza e che la storia della missione è sostanzialmente una palla retorica? Certo. Ma non per questo mi si può chiedere cosa avanzo e dire che non c'è nulla che posso pretendere. Perchè, per esempio, se rovescio la simmetria e considero la tua situazione, o studente, vedi che quel ragionamento lo capisci benissimo. Tu mi dici che non ti fidi di me perchè hai avuto dei cattivi prof. che ti hanno tolto la speranza di poter essere stimolato e informato accuratamente e compreso e magari anche, ogni tanto, divertito. E che per questo ti mostri scoglionato e tiri a campare e punti ad attraversare i cinque anni della scuola superiore investendo il minimo possibile di tempo e impegno e riservi la carica emotiva e la passione solo alla grande spettacolare causa delle vaccate tra vitelli che riempiono di vita tutte le lunghe ore del merdoso purgatorio a cui sei condannato.
Ma ti sei mai chiesto come faccio io a resistere ad anni e anni di quelli come te, che si sognano di prendere almeno un po' sul serio il lavoro che si fa in classe solo se, oltre che bovini, sono anche così tordi da non riuscire a fare nemmeno quel po' che basta a portarsi a casa la tranquillità dell'ignavo/ipocrita, cioè lo stramaledetto sei in pagella (1)? Quelli che per tutti gli anni in cui li vedo quasi tutti i giorni mi passano davanti, entrano escono e stanno in classe sempre con la solita faccia da pestamerde e non mi stanno ad ascoltare non dico i giorni in cui sono noioso e il discorso non mi viene fuori, ma neanche i giorni in cui sono lucido e ho dentro il sacro fuoco e le parole mi escono dritte sparate come chiodi. Il prof. a volte (poche, per quello che vedo) è una bestia. Ma per il resto è un essere umano, mai (sempre per quello che vedo) un santo o un mago o un profeta. E come gli esseri umani si logora e si scoraggia e deve andare a cercare le energie dove ne trova: nella dose di idealismo che ha, che deve avere, senza la quale non sarebbe là dov'è, nella sua famiglia, nelle amicizie nello scambio di idee, nei colleghi bravi che sono una delle grandi fonti di fiducia e coraggio, ma anche negli studenti bravi e in quelli che comunque fanno le cose sul serio, che Dio li benedica. Perchè, e questo è il punto, spesso anche gli studenti di dopo pagano i danni fatti da quelli di prima, le ferite lasciate su di un/a prof., magari giovane e inesperto/a (anche i prof. vecchi sono stati giovani e inesperti...), da una banda di bastardi che non sono liberi da qualsiasi addebito solo perchè hanno, o all'epoca avevano, 16 o 17 o 18 anni.

A me sembra che sia una storia molto simile a quando, ragazze e ragazzi e poi uomini e donne, ci cerchiamo per la faccenda dell'amore e al principio non sappiamo come funziona e come si fa. E ci rendiamo conto molto presto che è un gioco in cui ai sentimenti si mescola la forza e la si usa per difendersi e offendere. E ci si fa del male. E si infligge agli altri la sofferenza che si ritiene di aver subito, la si trasmette come il testimone della staffetta, con l'incarico di pestare sotto i piedi qualcun altro come prima si è stati calpestati a propria volta. Anche lì capita che paghiamo il male fatto da altri alla persona che incontriamo, che magari é diffidente e scoraggiata con noi perchè ha passato qualcosa di cui non abbiamo colpa, anche se forse abbiamo colpa di quel poco o tanto dolore che abbiamo scaricato su qualcun altro chissà con quanta incoscienza e leggerezza.

Va bene, non sto dicendo che la colpa è dei ragazzi: dico solo che anche loro cominciano a essere padroni di sé stessi e dovrebbero ogni tanto pensare un po' alle conseguenze di quello che fanno. Per il resto la fatica resta e deve restare quasi tutta sulle stesse spalle, che hanno da sopportare tra gli altri anche il peso di dover fare sempre, quando le cose vanno male, il primo passo per cercare di risolvere il problema. E' come in amore, anche qui: vale sempre la pena di fare il primo passo, sul serio, senza ingenuità ma con il cuore aperto, di parlare francamente, di essere davvero disponibili. Di solito non c'è molto tempo per farlo: tre anni passano in fretta. Meglio provarci subito, trovare la forza di affrontare la cosa appena ci si rende conto che c'è qualcosa che non va: almeno si è fatto il possibile. Ma se non basta e non serve, sappiatelo, si soffre. E le persone che ti fanno soffrire così poi non è facile perdonarle: sarà anche un lavoro, ma ti hanno ferito e tu a volte non vorresti averci a che fare mai più.

(1) Naturalmente, non tutti i sei in pagella sono uguali, non tutti sono “la tranquillità dell'ignavo/ipocrita”.

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