lunedì 4 marzo 2013

LA BOTTIGLIA DI CHABLIS

Di solito io faccio la parte di quello che non si fa attrarre troppo dalle novità e dalle mode. Se uno ha maturato giudizi solidi e ponderati non gli interessa dell'ultimo romanzo del nuovo scrittore o del film che tutti vanno a vedere: se veramente la cosa vale la pena, reggerà nel tempo e la si potrà apprezzare dopo un po', senza neanche avere intorno il fastidio di quel po' di clamore che circonda le cose di tendenza. Altrimenti passerà e, senza neanche aspettare troppo, il tempo farà giustizia dell'inconsistenza di quello che non ha la forza di restare in piedi.
Ma è vero che con questa storia poi ci sono delle cose che mi perdo. Perchè, per non confondermi nella calca e non stare a fare la fila in mezzo al casino, alla fine non vado a Pordenonelegge e non vedo (tra gli altri) McEwan e Jonathan Coe. Comunque è un calcolo del quale tutto sommato non mi pento. Poi a volte mi devo ricredere un po'. Per esempio, siccome L. vuole andare (sempre a Pordenone) a vedere qualche manifestazione di Dedica, che quest'anno ha come protagonista lo scrittore spagnolo Javier Cercas, con grande gentilezza mi ha preso uno dei suoi romanzi, andando a naso e a caso. Così tra ieri e oggi ho letto le 130 pagine di “Il nuovo inquilino” (Guanda): una specie di parabola ben congegnata su come l'illusione di vivere un'esistenza ordinata e di tenerne in mano i capi sia il frutto di una specie di malinteso, di una debolezza profonda, dell'invincibile pigrizia che ci contagia nei (più o meno) lunghi periodi in cui la gravità che interviene sugli oggetti, il peso del nostro corpo, l'inerzia dei comportamenti ci dirigono in modo rassicurante e ci permettono di ripetere gli stessi percorsi. Li impariamo a memoria e pensiamo che li sapremo ripercorrere sempre, anche a occhi chiusi, anche su un piede solo. Ma abbiamo continuamente segnali di come la nostra esistenza sia in bilico e la nostra convinzione di esserne padroni almeno in qualche misura sia frutto di un'incoscienza in fondo colpevole. Perchè noi non sappiamo cosa è vero.
Se facessimo i conti troveremmo che la vita di ciascuno di noi si tiene aggrappata a quattro-cinque convinzioni che crediamo inchiodate bene in fondo, dietro a tutte le cose a cui corriamo dietro tutti i giorni. Ma basta che qualche giro di casualità cominci a scavare un poco intorno a questi chiodi, senza neanche il bisogno di chiamare in causa qualche complotto del mondo malvagio o un destino particolarmente ingrato, ed ecco che cominciamo ad avere paura, a sentirci perduti. E rimpiangiamo la nostra debolezza, la vanità che ci ha spinto a pensare di poter realizzare qualche obiettivo ambizioso quanto ininfluente rispetto al nucleo autentico della nostra vita, impedendoci di ricordare sempre quanto sia pericoloso lasciare incustoditi anche solo per poco gli appoggi ai quali dobbiamo la nostra stabilità. E finalmente vediamo tutte le mancanze che ci hanno lasciati esposti all'umiliazione, alla solitudine, al dolore: capiamo, come sempre troppo tardi, quanto male abbiamo fatto a lasciarci andare in quel modo, a non portare a termine quel programma, a non trovare la forza di sostenere quell'impegno, a concederci troppe volte il lusso di vedere, da soli e in preda alla diabolica passività che conosciamo bene, il fondo di una bottiglia di Chablis. “Solo gli adolescenti e gli stupidi si ostinano a volere quello che non hanno e a non volere quello che hanno. Solo gli adolescenti e gli stupidi sono incapaci di apprezzare qualcosa finchè non lo hanno perduto”.
Forse possiamo ringraziare l'autore, che comunque un po' di pietà alla fine la dimostra, lasciando aperta la possibilità che le cose ci avvertano prima del disastro per darci il tempo e la possibilità di fare qualcosa. Ma non so quanto sia probabile che riusciremo ad approfittare dell'occasione: la bottiglia è lì e il vino è così buono... Perchè non farla fuori tutta e lasciare che tutto il resto vada affanculo?

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