mercoledì 24 luglio 2013

COMUNISTI (la terza cosa che non sono riuscito a dire e una quarta che ho detto ma ripeto)

 (ultima parte della pigna, poi basta, almeno per un po'...)

L'Italia ne era piena quando sono nato: me ne vedevo intorno parecchi e non mi facevano paura. Il primo confronto politico serio al quale ho avuto modo di assistere in vita mia è stato quello tra mia zia e mia nonna,
che praticamente vivevano con noi e che ogni tanto discutevano un po' perchè la nonna Dosolina era una democristiana naturale, donna religiosa e di campagna (anche se il nonno Sige lavorava soprattutto nell'edilizia, come i suoi fratelli e gran parte della famiglia, anche in seguito), mentre la zia aveva un moroso comunista, figlio di uno dei dirigenti storici del PC di qua, da sempre largamente minoritario. Ricordo bene di avere ricevuto in cucina una prima illustrazione semplice di come potesse essere considerata la questione: dovevo avere una decina di anni o poco più e credo di aver chiesto qualcosa di elementare, tipo chi erano i comunisti. Mia nonna, che stava preparando la tavola e aveva in mano dei piatti, mi disse un po' agitata che i comunisti erano quelli che se tu avevi due piatti e un altro non ne aveva nessuno ne prendevano uno a te per darlo all'altro. Mia zia si girò e ribattè secca che non si trattava di due piatti a zero, ma di cento, mille piatti a zero. Io all'epoca avevo ovviamente una mente piuttosto semplice, e poi ero dell'Azione Cattolica ed ero molto sensibile alla faccenda della povertà e dell'uguaglianza, con annessi cammelli e crune eccetera, e questa cosa di distribuire le risorse non mi sembrava male come idea, quindi tendevo a dare ragione alla zia. Ricordo anche che in occasione di un turno elettorale ci furono discussioni abbastanza frequenti fra le due, perchè la zia voleva convincere la nonna a votare a sinistra e la nonna reagiva dicendo che l'avrebbe fatto, ma in modo un po' passivo ed evasivo, perchè da un lato non aveva nessuna intenzione di cambiare idea, ma dall'altro evidentemente si sentiva un po' tormentata. Quella volta fu solo dopo le elezioni, solo a me che ero (pìù o meno) il nipotino preferito, che a domanda precisa la nonna rivelò: “O votà par la Mocrazìa”
Invece non ho mai saputo di preciso che cosa votasse mio padre, che certamente non era molto impegnato e non sembrava molto interessato, ma in fin dei conti era un laureato, un professionista, e una qualche coscienza civile la doveva avere. Ho il ricordo preciso di un commento sulla politica internazionale che gli ho sentito fare al bar sotto casa (“da Bubi”) dove ogni tanto mi portava quando andava a giocare a carte con gli avventori medi del locale che, credo, gli volevano bene anche perchè lui, dottore, stava amichevolmente con loro a battere il fante senza tirarsela in nessun modo, come del resto non faceva mai. In quell'occasione, a conclusione di qualche discorso sulla precarietà degli equilibri mondiali in un'epoca (del resto) di recrudescenza della guerra fredda, manifestò, nello stile diretto che gli era solito, una sostanziale sfiducia nelle prospettive dell'umanità a breve-medio termine, dicendo pressappoco: “Ah, cossa vutu... Da qua un fià i ne mete a tuti na bomba su pal cul...
Mia mamma diceva che mio papà era liberale. Lui veniva da un paese del veneziano ai margini della bassa, l'area della bonifica, dove era nato in una casa di bonifica assegnata alla sua famiglia di braccianti (che poi però finirono anche loro a fare soprattutto i murèri...). La maggior parte dei suoi, ho imparato col tempo, era di sinistra, tra comunisti e socialisti, e loro dicevano che mio papà era socialista. Ma non ho fatto in tempo a parlare con lui di queste cose e non saprò mai bene come la pensava. Comunque io dei comunisti non avevo paura, mi sembrava che dicessero cose sensate in linea di principio e mi sembrava, per quel poco che capivo, che avessero delle ragioni e che le cose per cui combattevano fossero giuste. Poi, un po' alla volta, ho percepito che da queste parti non c'era gran simpatia per i comunisti. E non solo da queste parti. Mentre intorno a questa faccenda cominciavo a mettere insieme qualche pezzetto di coscienza civile, mi sono accorto che la storia di chi era comunista e chi proprio no era una questione complicata attorno alla quale si avvitava un po' tutto il mondo o quasi. Una piccola spia mi venne fornita anche dal cugino del Venezuela, che usò proprio quelle parole: “Da noi non c'è molta simpatia per i comunisti”. E allora ancora sostanzialmente mi chiedevo perchè, dato che invece a me questa faccenda della distribuzione delle risorse sembrava ancora quasi ovvia.
Adesso non mi metto, naturalmente, a ripercorrere i passi del mio progressivo e non recente disincanto, passato naturalmente sia attraverso la lettura di un po' di pagine di storia che attraverso qualche esperienza e conoscenza personale. Mi limito a riportare il risultato attuale del ragionamento: è meglio che il numero dei comunisti (in senso stretto) in giro per il mondo sia piuttosto limitato, sempre a patto che, naturalmente, questo limite non sia minimamente imposto con la forza ma sia il frutto dell'esistenza, all'interno di un sistema o di un orizzonte politico, di alternative più interessanti e praticabili. Il fatto che per tutta la prima età repubblicana in Italia l'opposizione sia stata principalmente comunista è uno dei guai che ci portiamo dietro, come il solito Crainz osserva in termini molto precisi (1). La storia del PC in Italia merita rispetto ed è piena di personaggi degni, ma ciò non toglie che sarebbe stato molto meglio che anche i comunisti italiani ci avessero visto dentro qualche decennio prima, come i socialdemocratici tedeschi. I quali, come è noto, già alla fine degli anni '50, dissero chiaramente alle masse operaie e a tutti che, visto come era venuta fuori la torta sovietica, era il caso di evitare di riproporre quella ricetta, senza neanche cercare di inventarsi qualche variazione sul tema. Quindi la rivoluzione non era il caso neanche di provarci a farla. Piuttosto era meglio tenersi la faccenda dell'economia di mercato, magari provando, là sì, qualche ingrediente nuovo, a fare esperimenti sulle dosi, sulle proporzioni, considerato che una buona parte degli obiettivi storici del comunismo li aveva approssimati meglio il capitalismo del comunismo stesso (2).
Invece quelli che si dichiarano comunisti adesso faccio un po' fatica a capirli. Qualche tempo fa pensavo che servissero a dire le cose che nessuno diceva, malgrado la loro tendenza storica ad essere ciecamente intransigenti anche di fronte ai risultati di tante esperienze e all'impossibilità di affrontare molte situazioni proponendo (come spesso sono ancora portati a fare) soluzioni piuttosto ideologiche e dogmatiche. In parte lo penso ancora. Penso anche che abbiano ancora un po' ragione a sottolineare che alcuni problemi sotto sotto non hanno realmente cambiato forma, in particolare penso spesso a come le relazioni industriali nel mondo del lavoro, il rapporto tra proprietà e lavoro, in sostanza, si giocano sempre sul filo dello sfruttamento, per quanto la trasformazione delle strutture dell'economia dagli anni '80 abbia cambiato parecchie cose in questo ambito. Però penso anche che le soluzioni che propongono siano sempre le stesse, non tengano quasi mai conto di quanto comunque le cose siano differenti rispetto a prima e si ostinino ad arroccarsi su una trincea di difesa dei diritti che a volte è fuori dal tempo. Nella scuola, per esempio, per me lo è certamente. In fabbrica, invece, forse succedono ancora abbastanza spesso cose che danno qualche ragione ai comunisti (quelli veri, non quelli come me, che sono stato cattocomunista solo per un po', dai quindici anni in poi...). Credo che cambiare quelle cose (che succedono in fabbrica e nel mondo del lavoro in genere) sia la cosa più importante a cui chi è di sinistra dovrebbe pensare, e credo che sia un problema difficilissimo. Ma credo anche che la difesa a oltranza della trincea sia una scommessa persa.
Perchè credo (e questa è la cosa che sono riuscito a dire, per ultima) che il vero problema dell'Italia di questi ultimi lunghi difficili decenni di triste e innegabile decadenza, sia stato un altro. Intendiamoci: non credo affatto che le responsabilità maggiori siano della sinistra, che non ha quasi mai governato e alla quale comunque gli italiani si ostinano a non dare un po' più di fiducia neanche quando se la meriterebbe. La classe dirigente prima democristiana e craxiana e poi berlusconiana/leghista/postfascista ha chiaramente il grosso e la sostanza delle responsabilità della situazione di degrado in cui siamo immersi, il risultato di quella che Scalfari chiamava la “mutazione genetica” e Cafagna la “grande slavina”. E credo che sia davvero meschino il loro trucco di sostenere che l'Italia è stata rovinata dai comunisti, trucco che purtroppo funziona ancora perchè c'è ancora molta gente che ci crede. Ma credo che le possibilità di soluzione (sperando che ci siano), non stiano, ripeto, nella trincea e nel filo spinato. Credo (e questa è la cosa che sono riuscito a dire) che la direzione in cui andare la riveli l'analisi degli errori commessi dalla nostra classe politica e dirigente (qui sì, in parte, anche quella di sinistra) negli anni dal '70 in poi. Analisi di cui avevo citato in conclusione una sintesi estrema affidata a due testimoni e protagonisti non sospettabili, direi, di essere troppo di destra, e che pure dicono: La grande mutazione genetica si colloca alla fine degli anni Sessanta e coincide con la prima vera fase di benessere che il nostro paese abbia mai vissuto. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente capace di di utilizzare quella ricchezza per costruire una società giusta, civile e agiata. Abbiamo invece partecipato ad una grande abbuffata nel corso della quale tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti (3).
E ancora: [A]bbiamo cercato il benessere, non il senso del rischio, dell'iniziativa e della responsabilità individuale. Le imprese hanno percepito profitti crescenti ma sono state pronte a chiedere la socializzazione delle perdite, favorite in questo dai sindacati in lotta contro i licenziamenti e dalla cultura cattolico-sociale. Uno sterminato esercito di statali si è sindacalizzato e ha ottenuto miglioramenti economici e un progressivo livellamento dello stipendio – incentivo non secondario a una progressiva deresponsabilizzazione del settore pubblico -, si è assicurato spazi di libertà e impunità che hanno consentito uun secondo lavoro, ha cercato benessere e consumi ma fuori da ogni logica di responsabilità e di rischio. I sindacati hanno premuto sul parlamento, che sistematicamente ha ceduto, per la ruolizzazione di folle di precari, soprattutto nella scuola, contribuendo così alla dequalificazione della pubblica amministrazione […]. Su questa realtà si sono creati circuiti di consenso e di potere che hanno coinvolto maggioranza e opposizione, sindacati, partiti politici e istituzioni, in un sistema sempre più corporativo e consociativo. Sotto le apparenti e talvolta durissime contrapposizioni politiche, l'ideologia cattolica dell'assistenza si è spontaneamente associata al rivendicazionismo sindacale di ispirazione classista (4).
Ecco. Così mi pare. Messi alcuni punti, non so quanto fondamentali o stabili, ma che sono il frutto di un ragionamento non proprio superficiale.
Magari adesso per un po' parliamo d'altro.

(1) Sulla lunga distanza, in realtà, la «doppiezza comunista» ci appare uno strumento volto non tanto a scardinare la democrazia quanto a coinvolgervi progressivamente larghe masse. Qualcosa dell'originaria impostazione però rimaneva, e non era di poco conto. [...] Il permanere del mito e poi della difesa dell'Unione Sovietica, e la lunghissima indifferenza nei confronti della realtà dei paesi socialisti «rivelano» la grande difficoltà ad accogliere le libertà formali come bene assolutamente intangibile. [...L]a prassi, di origine staliniana, dell'annullamento e della cancellazione degli oppositori è solo la spia di qualcosa di più profondo, che atteneva alle modalità stesse dell'«esser comunista». I documenti e i verbali interni, la stampa di partito, le memorie dei militanti compongono un quadro che ha tratti nitidi: una concezione totalizzante della militanza come «scelta di vita», intrisa di spirito di sacrificio e di subordinazione al partito; [...] il primato assoluto della politica e il suo intransigente prevalere sul privato; un'adesione completa all'organizzazione […]; un «centralismo democratico» che significava anche la piena rinuncia all'espressione pubblica del dissenso. [Crainz p. 62-64. A supporto di questa analisi Crainz cita alcune memorie e ricerche specifiche su struttura e costume politico del PCI nei primi anni del secondo dopoguerra. Li riporto per scrupolo, che non si sa mai, e per far vedere che uno storico non dice cose a cazzo. Si tratta di: P Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il Pci tra democrazia e insurrezione (1944-49), Il Mulino, Bologna 1991; S. Bellassai, L'organizzazione come cultura. Aspetti del rapporto fra militanti e partito nel Pci degli anni quaranta e cinquanta, in «Storia e problemi contemporanei», 2000, 25; C. Sereni, Il gioco dei regni, Giunti, Firenze 1991.]
(2) Una tesi che a me è sempre sembrato sia stata illustrata in modo geniale, anche se piuttosto farsesco, da quella grande commedia che è Uno, due, tre! (One, Two, Three!, USA 1961) del solito Billy Wilder. Così, tanto per fornire uno dei miei riferimenti ideologici fondamentali a chiunque possa interessare, cioè a nessuno.
(3) E. Scalfari, Comincia il gioco dei quattro cantoni, in “la Repubblica”, 16/1/1994, citato dal solito Crainz, Autobiografia di una Repubblica, p. 74
(4) P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991, citato da Crainz, a p. 77.

Nessun commento:

Posta un commento