martedì 11 febbraio 2014

ARTIGIANI

L'ospedale di Motta sommerso dall'alluvione del '66
Se guardo indietro verso gli anni di mio padre mi pare di vedere un mondo in cui gli uomini, anche se avevano a disposizione strumenti in apparenza molto meno raffinati e potenti dei nostri (o forse proprio per quello), erano sostenuti da una disposizione profonda a concentrare attenzione ed energie verso pochi obiettivi ragionevoli e raggiungibili.
Da dove ci troviamo adesso, distanza ragguardevole, sembra che la relativa semplicità della realtà di allora permettesse loro di organizzare più facilmente la propria esistenza intorno a quella che potremmo chiamare una vocazione. Come se la gamma ristretta di alternative in campo li aiutasse a non sprecare tempo e forze a chiedersi che cosa fare: le vite possibili erano quelle (differenze abbastanza nette, poche sfumature...) e la decisione di entrare dentro a una piuttosto che a un'altra si prendeva in modo naturale, in base a propensioni nate presto o sotto una spinta dell'ambiente che risultava determinante ma spesso non era sentita come una violenza. E questo sembrava valere anche per altre questioni capitali della vita: tipo sposarsi e fare figli, avere a che fare con la politica e lo stato, eccetera.
So di aver invocato quella specie di semplicità, che mi è sempre parsa dirittura e rettitudine insieme, in circostanze in cui avevo da fare delle scelte importanti. Non so se l'ho trovata, se ne ero degno, o se magari è stato un errore pensare di poter trovare così un orientamento anche in questo presente aggrovigliato. Non sottovaluto la complessità del passato e non mi sembra di farne un mito né di dimenticare le tante ragioni per cui invece so bene di preferire, di molto e per molti aspetti, il digitale al cartaceo. Però credo che davvero qualche decennio fa le basi antropologiche del nostro comportamento fossero un po' diverse. Non so se migliori, forse la domanda è oziosa. Ma mi è venuto spontaneo voltarmi da quella parte quando mi è sembrato indispensabile provare a ridurre la complessità di quello che avevo davanti per arrivare a qualche sintesi, pur con la fretta e l'approssimazione che la vita ci impone tutte le volte che le questioni urgenti ci forzano a rinviare o costringere quelle decisive. 
Ho ripensato a questo in questi giorni di pioggia continua che ci hanno fatto un po' di paura, andando a rileggere con attenzione e affetto il racconto del dottor Piero Sanchetti sull'alluvione del '66 a Motta (Cronache dell'alluvione, scaricare e leggere). Non è solo perchè Sanchetti era collega e amico di mio padre tanto da dedicargli un angolino di questa apocalisse di provincia. Mi sembra piuttosto che, come in molte delle cose che Sanchetti ha scritto (alcune delle quali ha avuto la gentilezza di passarmi parecchio tempo fa), in queste pagine ci sia dentro non solo la verità di un'esistenza integra e onesta fino al midollo, capace di una devozione esemplare verso il lavoro e le persone, di famiglia e non, ma la verità di un tempo che sta appena qui dietro e di cui la nostra dannata (in)civiltà non è stata gran che capace di conservare una traccia consistente, un'eredità di qualche peso. Un tempo in cui non solo gli analisti di laboratorio in ospedale, ma un po' tutti (gli altri medici, le infermiere, gli amici architetti, i barcaioli di laguna, gli ex-fochisti, le suore...) si sono costruiti con la vita una sapienza che permette loro di sapere magari poche cose ma quelle poche con certezza. Gente che si prende la responsabilità di fare una cosa solo se la sa fare e se no dice di no, che non la fa. Ma, se la fa, la fa bene e si può star sicuri che non fa un gesto di troppo, come i bravi artigiani, come il meccanico di Pirsig che sa esattamente quanto stringere il bullone: abbastanza perchè non resti lasco ma insieme non troppo da sforzare la filettatura della vite (1). E mi sono tornate in mente le diagnosi degli storici sugli anni in cui questa saggezza delle mani e dei gesti, primitiva ma niente affatto elementare, si è persa: sul come e quando, nel nostro paese, il tentativo di fare un passo avanti decisivo verso la modernità e lo sviluppo ha dato come esito una perdita e una dissipazione niente affatto fatali ma attribuibili a scelte, comportamenti e responsabilità precise (ne ho parlato un po' QUI e nei post successivi).
Ma, al di là di questa ulteriore ragione per dispiacermi del presente, dispiacere che non so se contribuirà a darmi un po' di spinta per continuare a lavorare all'impresa ciclopica di fare il pochissimo che mi è possibile per cambiare le cose (credo di no, in questi giorni se c'è una cosa che mi manca è proprio quella spinta...) trovo che il racconto di Sanchetti sia bellissimo, che racconti la peggiore catastrofe recente del nostro piccolo territorio esattamente con lo sguardo e l'attitudine del povero Cristo che lavora, aspetta con fiducia e poi, pur non capacitandosi del fatto che tutto quello che poteva andare storto è andato storto, continua a lavorare e ad aspettare con fiducia, prendendosi sul collo tutti i pesi che deve e magari qualcuno in più e facendosi poi anche l'esame di coscienza per vedere se ancora ha mancato in qualcosa. Ma a piacermi tanto non è solo questa struttura morale solida, che è il fondamento di quella semplicità di cui dicevo sopra e che mi pare una delle virtù migliori che una volta avevamo qui, adesso convertita da tempo nel trinomio maledetto lavoro-figa-schei, del quale ci siamo ubriacati, qualche anno fa (quando le cose andavano bene e avremmo potuto davvero usare di quella fortuna per diventare più civili) senza poi riuscire più a snebbiarci il cervello neanche adesso che a tanti tocca davvero tirare la cinghia. Mi piace anche il modo in cui Sanchetti ha studiato da dottore e ha fatto del suo laboratorio la sua camicia e canottiera per tutta la vita, come non solo si capisce dal racconto ma si sa anche per certo come cosa nota. Perchè intanto ha studiato sul serio anche il resto, nelle scuole durissime di quei tempi, spesso massacranti ma a volte capaci di svegliare davvero gli ingegni riempiendoli di possibilità e poteri. Un dottore indiscutibilmente dedito, al quale però il suo mondo ha messo in mano anche degli strumenti di analisi di altro genere, che lui ha saputo usare, mi pare, con una finezza non comune, in modo per niente banale ma senza vanità né compiacimento, proporzionando bene l'intarsio dello stile secondo il bisogno e la ricerca della profondità. Non la faccio lunga: credo che se si legge si capisce subito cosa intendo. E dico che dovremmo ringraziare più spesso chi è riuscito a condensare con tanta onestà quanta precisione il senso di alcuni dei passaggi decisivi della nostra storia, nostra nel senso che è successa qui, nei posti dove tutti i giorni respiriamo e camminiamo per strada.
Per questo metto in rete il racconto: fino a qui non lo si trova, per quanto mi risulta. Penso che dovremmo farlo girare quanto possibile e fare in modo che dalle nostre parti non ci sia nessuno che non lo abbia letto (un po' come penso che nessuno qui in Veneto dovrebbe stare senza leggere Meneghello – più ancora che Zanzotto). Poi chiederò il permesso e, se posso, aspetterò aprile per mettere in rete anche il suo racconto, altrettanto bello, della morte dell'amico Giovanni Girardini, partigiano impiccato dai nazisti per rappresaglia a Oderzo nel settembre del '44 con Bruno Tonello.
Credo che uno scrittore di provincia così bravo sia una benedizione. Tanto più se, come in questo caso (in cui pure tra le parole filtra continuamente e sedimenta in fondo un precipitato denso di cattolicesimo) si capisce che chi scrive sente, come si dice facciano più dichiaratamente i cristiani del nord Europa, che ogni gesto delle sue mani al lavoro, ogni momento della sua vita, ogni rapporto con gli altri è una preghiera, probabilmente del tipo di cui Dio tiene conto di più. 

(1) Il riferimento è a Robert M. Pirsig e al suo Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta
(2) L'ultimo grosso rischio che la Livenza ha fatto correre a Motta, prima dell'ansia di questo febbraio, è stato tre anni fa, nell'autunno del 2010. Da un po' di anni abbiamo sempre un po' di paura, più che in passato. Ne parla bene Fabio Franzin, che quella volta ha girato agli amici i suoi Dispacci dalla Livenza. Metto in rete anche quelli, poi gli chiederò il permesso.

2 commenti:

  1. Dax, ma qualcuno lo ha mai pubblicato, fuori da internet intendo, quel racconto? Posso mettere il link su facebook? È bellissimo, è una cosa che vorrei che fosse letta, e riletta, e ricordata quando piove...

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  2. Ciao Maria. Sentirti è sempre un grande piacere. Metti pure il link dove vuoi. Il racconto è stato pubblicato quasi solo in quelle riviste di medici scrittori che una volta poi si usavano per le sale d'aspetto degli ambulatori, e poi in qualche pubblicazione locale. Ho parlato oggi col dottor Sanchetti che ha 90 anni ma sta bene e mi dice che... "legge molto". Gli ho detto che qualcuno dovrebbe raccogliere almeno una buona parte delle cose che ha scritto e farne qualcosa di serio. Avessi tempo ci proverei, forse cercherò il tempo e ci proverò.

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