domenica 20 agosto 2017

Quando viene il démone?


La felicità. A sentire Aristotele con la sua prodigiosa serenità sembra che si tratti di un equilibrio animale sul quale l'uomo ha un potere decisamente ampio, specie finché il fisico e la mente lo sorreggono. Che è un po' come dire - alla napoletana - che quando c'è la salute c'è tutto. E però su questa base di benessere fisico poi si innestano tutte le scelte che si fanno, le relazioni, il lavoro, la necessità di tenersi uno spazio per l'attività intellettuale che - come è noto - è esattamente quella che fa uomo l'uomo e lo mette più facilmente in condizione di essere, appunto, felice. 

Del resto è altrettanto noto che alla maggior parte degli uomini non basta stare bene: se anche mettiamo in atto con lungimiranza e scrupolo tutta l'attività di prevenzione del dolore che (sempre Aristotele) la virtù richiede e che però permette solo – nei casi migliori – di prevenire qualche guaio, tendiamo comunque tutti a cacciarci – spesso con diabolica e maledetta ostinazione – in gineprai di diversa natura e dimensione ma sempre sufficienti a rovinarci l'esistenza in misura decisiva. Non voglio sottovalutare la consapevolezza che Aristotele ha della dimensione tragica della nostra vita lasciandomi fuorviare dall'incredibile olimpico equilibrio che l'intelligenza delle cose gli consente, dal tono a volte asettico delle sue comunicazioni: proprio tutto il suo lavoro sul tema della virtù mi convince che Aristotele conosceva bene il dolore e la sua enigmaticità. Ma forse è vero che sul tema della felicità un'intuizione decisiva stava già in uno dei nuclei profondi del modo di pensare corrente nel mondo greco pre-pre-classico.

Il modo in cui i Greci pensavano il divino mi è sempre sembrato frutto di un'intuizione abissale: ancora al liceo mi ha preso come una mezza folgorazione l'idea che il mondo è pieno di dei e che tutto quello che ci succede dentro è una sequenza di micromiracoli ai quali non facciamo molto caso per abitudine ma per i quali poi dobbiamo pregare e ringraziare e sacrificare ai numi che ne sono il fattore determinante. A dottrina ci insegnavano che quella era la superstizione dei pagani: ho bisogno della pioggia o che la vacca sgravi senza danni e allora prego e sacrifico l'apposito dio. Invece poi mi è risultato chiaro che si tratta di una cosa più profonda, quando ho visto che per i Greci il miracolo o meglio l'intervento divino (miracolo è perché provoca ancora stupore ma non perché sia eccezionale) ha come sua prima manifestazione la dimensione interiore, sulla quale - a partire da Omero e dall'ira di Achille – loro pensavano come un dato – oggi per noi ovvio dopo il dottor Sigmund e innumerevoli altri portasfiga della fine e della postmodernità – il fatto che non ne siamo assolutamente padroni e che quello che ci succede dentro (qualunque cosa sia o non sia questo “dentro”) sfugge largamente al nostro controllo e proviene in qualche modo dal di fuori. 

“Eudemonia”, dicevano loro: cioè essere di buon genio, o forse meglio averlo accanto questo genio, il démone che ti mette in quella condizione di pienezza in cui la vita ti appare possibile e le cose ti sembrano fattibili anche se le calcoli con buona consapevolezza, perché senti che hai, che avrai la forza di fare il necessario per affrontarle.
Ma da dove viene, quando arriva questo genio resta difficile da capire. Puoi preparargli il terreno, programmarti la vita con cura, come Aristotele diceva di fare e probabilmente faceva (con quell'intuizione profondissima che la felicità non sta affatto nel fare il cazzo che ti pare, cosa che ci appare paradossale solo finché non abbiamo superato la dimensione patologica e canina dell'adolescenza) ma poi non sai. E così ti trovi in preda di te stesso e della tua ordinaria ciclotimia, ad aspettare che ti venga la voglia o che ti passi il malumore, ad esorcizzare i momenti di penombra facendo passare il tempo in attesa che il démone plani su di te (non me lo vedo a sbattere le ali) e senza avere poi le tecniche o gli strumenti adatti per trattenerlo. E questo per noi occidentali cazzuti è uno smacco terribile, una delusione cocente: forse sono capaci di sopportarla meglio tutti quelli che – anche nello stesso Occidente - si mettono nelle mani di Dio o quelli che – forse in Oriente ce n'è ancora qualcuno – sono frutto di mondi e civiltà meno maniache del controllo e sono in grado per questo di aspettare con pazienza che il loro barometro interiore si sposti da solo senza una ragione precisa verso l'alta pressione, condizione in cui il démone ti svola dentro cautamente e ti rinnova.

Certamente poco di nuovo: questa è una pagina che nessuno avrà interesse ad aggiungere alle moltissime già in circolazione sul punto. Ma un ultimo pensiero: si potesse calcolare, sarebbe un bene? Mille volte ci viene la tentazione di fare i conti in tasca alla felicità altrui (e al dolore), ma è notoriamente più facile (anche se spesso inopportuno) farlo col denaro. E chiaramente non si tratta dei casi in cui una condizione di media normalità si confronta con qualche tragedia altrui, di quelle che ti spezzano: la tentazione che invece ti viene sempre è quella di mettere a paragone normalità diverse e cercare di soppesarne gli aspetti e gli effetti combinati. E lì vedi che non solo – naturalmente – non puoi, perché i dati che hai non sono mai dati, ma anche che su questa materia l'inopportunità appare macroscopica. Eppure quanto sarebbe utile in teoria, per esempio sul piano storico-politico. Si potesse calcolare non solo il consenso (quello imperfettamente lo facciamo) ma la felicità collettiva, con una qualche specie di eudemonometro, avremmo una base migliore per ingegnerare il nostro mondo e farci sopra dei progetti più decenti? Potremmo valutare fino a che punto ci sono o no dei progressi? Scartare le soluzioni che in passato hanno prodotto incrementi di infelicità?

Ozioso? Certamente. Ma anche, sembra, ineliminabile, visto quanto e quanti ci hanno riflettuto sopra e si sono chiesti se in fondo una misura ci sia o ci fosse: per ricordare qualcuno fra i moltissimi pensiamo solo a Kant e alle sue discussioni per distinguere felicità e utilità, contro i padri di Mill e delle misurazioni della felicità compiute empiricamente a posteriori. E visto che noi non ci sogniamo di accettare le condizioni in cui sono vissuti i nostri padri e li mettiamo a tacere senza riguardo quando, vedendoci comunque infelici, rivendicano alla loro apparente primitività e povertà qualche barbaglio che non pare loro di rivedere nella nebbia della nostra cupezza quotidiana. Al di là dei ragionamenti di grande respiro, questa sembra una delle motivazioni più forti per continuare a riflettere su questo problema: il desiderio di non darla vinta a nostro padre quando ci parla di lui e dei suoi tempi con nostalgia, di continuare a considerarci un gradino più in su anche se poi sappiamo benissimo di vivere male e di essere perennemente incazzati. 

In realtà, poi, a guardare bene indietro, non sembrano esserci molti motivi per dare ragione al passato dei nostri padri e delle nostre madri. Ma che una delle fonti fondamentali di queste domande sia appunto il desiderio di non soccombere nel contenzioso sempre aperto con le nostre origini, mi pare certamente una dimostrazione in più che non siamo padroni di noi stessi e che, per quanto ci prepariamo e programmiamo le nostre cose con prudenza, alla fine l'unica (non) soluzione rimane lo stare ad aspettare (pregare, invocare), che il démone ci faccia visita, almeno ogni tanto.  

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