mercoledì 7 febbraio 2018

L'ODORE DELLA MERCE


Di quante cose abbiamo bisogno? Che cosa ci serve veramente? Se lo sono chiesto diversi antichi e molti orientali. I medievali concludevano abbastanza facilmente, dall'alto della loro passione per la trascendenza, che ci bastava pochissimo e che questo, dunque, non era un problema. Poi i moderni hanno sensatamente legato tutta una serie di istanze di emancipazione al possesso dei beni, alla disponibilità di risorse di vario tipo capaci di rendere più lunga e piacevole la vita. Per questo l'economia di mercato resta da un fracco di tempo in cima alla classifica dei sistemi preferiti o preferibili: malgrado alcune sue importanti controindicazioni, sembra aver risposto al bisogno di beni e risorse meglio di tutte le alternative in circolazione e, segnatamente, delle economie collettivistiche – quelle storicamente realizzate, perlomeno - rimaste indietro rispetto al capitalismo su tutta la linea (tenore di vita, libertà, rispetto per l'ambiente, funzionamento delle istituzioni ecc...) eccetto forse per la magra consolazione di un mondo in cui le disuguaglianze erano limitate, soprattutto grazie, però, a un livellamento verso il basso di quasi tutte le disponibilità.

Potremmo discuterne ancora, ma non lo facciamo: diamo per assodato, qui, che l'economia di mercato è bene, non supremo ma bene. E però sappiamo tutti che dentro questo bene ci sono agenti patogeni. Il mercato sarà anche la cosa più umana che c'è rispetto ad altri sistemi di produzione e distribuzione, ma nessuno di noi lascerebbe mai che tutta la sua vita in tutti gli aspetti fosse regolata dai principi della concorrenza e dalla logica del consumo. Potrebbe bastare se fosse pacifico che nella sfera privata vige un principio di solidarietà mentre la competizione dà forma a quella pubblica, ma in effetti non basta perché pacifico proprio non è: pensare che non sia necessario un tasso più o meno alto di solidarietà nella dimensione sociale è impossibile, se non, forse, per i nazisti dell'Illinois; e credere però che la nostra sfera privata sia tutto sommato immune dalle infiltrazioni che provengono dal troiaio cosmico di merci e prodotti vorrebbe dire essere ciechi di fronte a quanto ognuno di noi sia attaccato a certe cose che si comprano: cibi e vestiti, case e automobili, ma anche servizi e prodotti della famosa industria culturale eccetera. Nessuno vuole tutto e tutti sono in grado di rinunciare a molte cose, ma ciascuno sente nel profondo il bisogno di qualcosa e di fatto ne ha bisogno per vivere, soffre se gli manca.

Normale? Sì, forse, in parte. Se leggo Marcuse mi viene da pensare che in fin dei conti i miei padri, che sono stati forse la prima generazione a potersi permettere diffusamente, presempio, quindici giorni di vacanza al mare alla Pensione Sorriso, potevano ben considerare quel microlusso consentito dai tempi come un punto d'arrivo degno, un nobile compimento di vite vissute ancora sotto il segno della scarsità e della negazione di sé. E poi però passo – quando capita – davanti al parcheggio immenso fuori dall'outlet de Noventa de Piave, quel particolare bordello a cui da fuori1 la scenografia da paraVenezia conferisce un aspetto ancora più spaventoso degli altri mercatoni, tutti straordinariamente efficaci nel trasmettere il senso della morte. E quando ci passo mi pare che per l'umanità non ci siano più speranze di salvare l'umanità dalla presa di questi tentacoli che sono capaci di entrarti dentro che neanche ti accorgi e di cambiarti tanto che neanche ti accorgi. E mi sembra un grande enigma del nostro tempo questo conflitto tra la coscienza che non c'è soluzione fuori dal mercato e la vergogna di trovarsi fin le ossa e le budelle trasformati dal mercato in un dispositivo funzionale alla compravendita di vaccate.

Non ne usciremo, o almeno io no di certo: capisco perfettamente che l'unica è stare attenti e giocarsela, come fanno tutti, ma vedo anche che questa ragionevole massima non impedisce affatto la deriva verso una roba che non riesco a non considerare un semprepeggio. Senza contare che io vorrei salvare dal mercato alcune cose (come presempio, le prime che mi vengono, la solidarietà e la bellezza) e quando lo dico mi si obietta che sono fuori dal mondo e che il mercato è il mercato. Poi, quando vedo gente che dal mercato vuole salvare invece la propria meschina esigenza di non vedersi intorno dei negri (che pure non gli fanno un cazzo, o quantomeno niente di peggio di quanto gli facciano i suoi simili che lui trova più simili), allora viene a me da obiettare a quelli che “è il capitalismo, bellezza”, ma quando sto per farlo mi pare che la simmetria sia completa e che tutti e due abbiamo torto, e che il mio tentativo di sottrarre qualcosa all'universo venale non sia meno meschino del loro.

Eppure vedo i segni dell'apocalisse che mi vengono incontro. Sarà solo che sono vecchio, malandato e probabilmente abbastanza coglione, ma la capillarità con cui la seduzione volgare connaturata alla vendita di beni e servizi penetra e permea le nostre esistenze mi pare invincibile. Mi sento sempre più debole di fronte ad essa e mi pare di non avere neanche più il coraggio di provare a resistere. Vedo delle cose che mi sembrano assurde, ma poi penso che non ho nessuna certezza vera che anche le cose che amo io e di cui ho un bisogno vitale – i libri e il cinema, per dirne un paio – non siano assurde altrettanto.

Ho letto di recente (sentito in lettura in podcast, in realtà) quella cosa divertente e acuta di David Foster Wallace che si intitola Una cosa divertente che non farò mai più e che racconta una crociera in cui lo scrittore riporta nel suo diario di viaggio (scritto ad uso della rivista che ha pagato la crociera) non tanto la cronaca degli eventi quanto la sua fine analisi di come quel contesto sia uno di quelli in cui la seduzione del mercato si fa più sottile e avvolgente di sempre. Sembra difficile immaginare altre situazioni in cui - quanto in questa - tutto congiura (è organizzato apposta) per darti quel tipo di benessere che tutti normalmente considerano benessere (qualcosa di simile potrebbe essere un Grand Hotel o una SPA da siori). E in cui poi ti rendi conto comunque che invece bene non stai e che questa roba minaccia alcuni nuclei vitali della tua umanità.

Oppure un'altra nuova frontiera – scoperta per semicaso – della produzione e commercio di ritagli prima impensati della propria vita: qualcuno ha fabbricato e vende (25 euri circa online) un profumo per ambienti di cui versare qualche goccia nella tazza del cesso dopo aver cagato, per sconder via la spuzza ai successivi utenti del cesso medesimo. Deodoranti, per carità, si son sempre usati, ma questa è una cosa speciale, di raffinatezza inaudita, non solo perché è certamente di specie e livello incomparabilmente più elevati dei pestiferi spray dell'infanzia della mia generazione, ma anche perché è prodotta da una ditta2 prestigiosa per i suoi cosmetici ricercatissimi, e soprattutto perché la stessa presentazione del profumo attraverso l'etichetta raggiunge dei vertici di poesia che io non sospettavo possibili.
Mi spiego: l'etichetta è bilingue, inglese e francese, e, oltre alla denominazione del prodotto (su cui ora tornerò), ne propone una descrizione che rappresenta per me una vetta assoluta nel campo dell'eufemismo, una vertiginosa acrobazia verbale di cui non ricordo l'uguale in nessun luogo della memoria. La dicitura inglese dice, come si vede in foto: In instances where vigorous activity has occurred in the bathroom, dilute several drops of this carefully crafted product in the toilet bowl after flushing, for the benefit of all subsequent visitors. Traduco (probabilmente non molto bene): “In situazioni in cui si è verificata nel bagno una vigorosa attività, diluite alcune gocce di questo prodotto accuratamente preparato nella tazza del water dopo aver tirato l'acqua, per il benessere di tutti i successivi visitatori”. La vigorous activity mi pare un vero capolavoro, considerato anche che nessuno l'ha compiuta, questa attività, ma essa has occurred, si è verificata, è accaduta, come se la cosa potesse avere luogo impersonalmente, senza che della spuzza nessuno porti la responsabilità. E' vero che la vigorous activity potrebbe ricordare il “Maestra, posso uscire? Devo fare quella grossa...” delle scuole elementari (memoria che non appartiene a me ma a diversi altri sì...), ma mi pare evidente che siamo su un altro piano. La cosa è poi portata a un livello inarrivabile di snobismo dal fatto che, mentre la denominazione inglese del prodotto è un semplice e pudico POST-POO DROPS (gocce dopocacca, vedi sempre la foto), quella francese recita (e pare proprio di sentirla recitare con una voce transalpina in cui risuona l'eco della grandeur che può permettersi di dire senza sfigurare cose che renderebbero bassamente volgare chiunque altro): GOUTTES ANTI ODEUR DE MERDE.

Ecco: due piccoli esempi di assurdità per cui provo un certo disgusto e da cui non dubito di potermi salvare, ma che sono certo costituiscono per qualcuno esattamente quel nucleo di verità e bontà che il mercato alberga nascostamente in sé e bisogna preservare da tutte le storture e corruzioni del mercato stesso. Esattamente quello che io credo siano certi libri o film od opere d'arte di altro genere, i quali a loro volta qualcuno ha già preso per il culo esattamente come io faccio con le crociere extralusso o con le gouttes contro l'odeur de merde. In fondo resto convinto di avere ragione, che io so cosa va salvato e gli altri no. Ma il dubbio mi rimane e garanzie non ne ho. Certo, me la giocherò ragionevolmente combattendo contro alcune cose e per alcune altre come posso, con la forza che ho e che avrò e trasmettendo forse anche a qualcuno un po' del mio senso della realtà: non andrò a fare una crociera superlusso e non comprerò le post-poo drops. Ma questo non basterà neanche lontanamente – posto che qualcosa sia in grado di farlo – a salvarci, né me né l'umanità.


1 Mai entrato, per fortuna, ma ho smesso di credere che l'Ikea – frequentata invece con relativa frequenza - sia realmente una faccenda diversa.
2E qui è inevitabile ripensare il verso del sommo poeta: “Entra ora in scena una ditta / che acquista la merda dal gruppo prodotta” - Elio e le storie tese: La ditta, in Esco dal mio corpo e ho molta paura.   

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