Maggie Smith nella parte della barbona assomiglia vagamente all'Anna Maria |
L'inquietudine viene dal constatare che, col tempo, dentro il
perimetro della mia anima il Pazzo Agitato sembra guadagnare
lentamente spazio: questo a discapito sia della mia identità
ufficiale, il cui spessore si assottiglia progressivamente, sia di
Dolores, la cui posizione, che è sempre stata un po' marginale,
resta in secondo piano, costretta a giocare di rimessa, in difesa, a
opporre resistenza passiva. Io pensavo che Dolores, col suo
equilibrio naturale, con la sua sapienza tattile, avrebbe potuto
integrarsi un po' alla volta con la maschera che mi ricopre e
determina, in modo da dare un po' di sostanza e peso a un profilo che
il mondo quasi tutti i giorni ulteriormente snatura centimetro dopo
centimetro. Invece Dolores non sa combattere il presente, non ha armi
per farlo. Si limita a difendere il passato ma senza riuscire a
trattenerlo dal suo scivolare verso la morte. Quindi il pazzo, che si
agita e ride di un riso crudele e ridicolo e grida contro nemici
immaginari, diventa sempre più forte e coraggioso, e mentre prima si
faceva vivo solo a casa, per scherzo e con una certa discrezione,
adesso a volte prende il sopravvento e decide di emergere in momenti
inopportuni, per esempio spingendomi a inveire contro gli studenti in
classe (“Cani! Vigliacchi! Cani! Cani!”). La cosa non fa
problema, la butto in gioco e nessuno se ne accorge, dato che siamo
ancora molto molto lontani dalla linea della perdita di controllo. Ma
io sento che qualcosa in me sta cedendo, come punti che si smagliano,
e mi vedo davanti agli occhi, in fondo, distante ma presente e
identificabile con sicurezza, una forma minuta e instabile, un'ombra
tremula e minacciosa, una sagoma grottesca e irridente: lo spettro
della Anna Maria Sale (1).
Spesso compariva in silenzio: come tutti
suonava e spingeva il portone quando la si faceva passare sbloccando
la serratura con l'interruttore elettrico, poi entrava in fretta e a
passetti veloci attraversava il cortile per rifugiarsi al caldo. Ma a
volte la sentivi arrivare da lontano, che gridava camminando piano
lungo la Fondamenta della Misericordia. Chiamava: “Michela!
Michelaaaaa!”. Tirava lunga la a in una specie di lagna. Michela
era sua figlia, ma non era con lei. In realtà non era neanche da
qualche altra parte: non c'era e basta, non esisteva. Così almeno ci
avevano garantito i servizi sociali: Anna Maria non aveva mai
partorito, nessun figlio suo era mai stato registrato da nessuna
parte né si potevano ricavare da qualche parte, tantomeno da lei,
notizie che ci aiutassero a capire. Potevamo fare tutte le ipotesi
che volevamo: figli segreti, aborti, situazioni familiari drammatiche
di tutti i tipi, erano comunque tutti e solo esercizi di
immaginazione. Non abbiamo saputo e non sapremo mai perchè Anna
Maria chiamava una Michela fantasma, ma siamo certi che la
considerava evidentemente come il principale e forse unico sostegno e
consolazione di fronte alle difficoltà dell'esistenza e alle spine
della solitudine. Erano lei e Michela contro il Resto del Mondo, come
si capiva dal fatto che le lunghe sequenze di richiami spesso
venivano interrotte di colpo da uno scatto del corpo all'indietro,
verso un insieme di nemici non ben definito ma chiaramente
appartenente al genere femminile: “Brute putane! Putane! Porrrche!”
(con tre o quattro erre). Non si capisce cosa le facessero queste
donne, ma erano molto malvagie, perseguitavano Anna Maria, le
andavano sempre dietro offendendola, prendendola in giro, magari in
attesa di un suo momento di distrazione per rubarle qualcosa. Ma
soprattutto l'impressione era che mettessero in forse il suo sacro
legame con Michela, che le volessero separare, che gliela tenessero
nascosta per pura cattiveria. Perchè un motivo non c'era: a volte
Anna chiedeva alle nemiche, sempre gridando, sempre col suo tono esasperato e
disperato: “Cossa voléo da mi? Andè via! Putane! Porrche!
Porrrrche!” ed è chiaro che nessuno le dava una spiegazione. Così
tornava a girare nella sua desolata ricerca di niente, continuando a
picchiare il nome di Michela sulle pietre delle calli e sugli
intonaci dei muri come un cieco che si orienti col rumore del suo
bastone bianco.
E' naturale che molti dei barboni che
frequentavano la comunità di Betania (accoglienza pomeridiana e
cena, più una serie di altri servizi) presentassero questa
caratteristica di combinare in modo inseparabile il ridicolo e il
dramma. E se guardavo le cose solo sotto la luce del dramma diventava
più difficile resistere, pensando a quelle vite crollate e
fatalmente impossibili da ricostruire, anche solo in parte. Allora a
volte ci ridevo sopra: all'inizio sentendomi un po' in colpa, poi con
più leggerezza, specie dopo aver visto che Carlo, il fiol che
lavorava lì prima di me, si riferiva all'utenza disgraziata con il
nome collettivo: “i mostri”. Non erano mostri, lo sapevo
benissimo, ma siccome tutti i giorni facevo il possibile per loro, mi
sentivo abbastanza innocente anche quando ogni tanto, interiormente,
perdevo un po' la pazienza e, sempre interiormente, li mandavo a
cagare perchè ero stufo. Poi, esteriormente, facevo comunque tutta
la mia parte, che comprendeva tra l'altro, secondo il metodo
educativo di Don Giorgio (2), la pulizia dei cessi dei barboni tutte
le sere prima di cena. Non solo era formativo, ma anche evangelico:
mettersi al servizio di una causa che si può vincere è sensato, ma
tenere in piedi dei ruderi destinati solo a deperire progressivamente
a volte poteva sembrare inutile e per questo era una sfida
fondamentale al nostro rispetto per la persona, anche la più
scassata. Non mi lamentavo: sapevo che per gli altri, che lavoravano
coi tossici o con gli ex carcerati, era più dura perchè vivevano
tutto il giorno insieme a gente difficile, a volte dormivano nella
loro stessa stanza, dovevano provare a stabilirci un rapporto che non
sapevano mai quanto poteva diventare personale e quanto li poteva
scuotere. Io lavoravo sodo, ma con i miei stavo solo il pomeriggio, e
la sera dormivo in una camera singola e pure grande. Non mi potevo
lamentare, ma la pena di non vedere mai nessuno migliorare e tirarsi
fuori restava, e aveva un po' di peso anche quella.
Uno che avevamo provato a tirare in qua
era Bepi Praitano, uomo solitario e apparentemente mite, ma con
un'inclinazione pericolosa per il vino e una per le donne, meno grave
e più pittoresca ma anche quella potenzialmente fonte di qualche
guaio. Anche di Bepi non si sapeva la storia. Era sostanzialmente a
posto con la testa e quando non beveva era in grado di fare il suo
mestiere di calzolaio in modo assolutamente efficace e competitivo
rispetto alle condizioni di mercato. Senza l'alcool avrebbe potuto
fare una vita tranquilla. Aveva anche i requisiti per farsi assegnare
un piccolo alloggio popolare dal comune invece di fare il randagio,
ma non era facile. Gli avevano assegnato quaranta metri a Mestre in
periferia verso la Miranese, un palazzone grande e quasi nuovo. Lo
avevamo aiutato a traslocare portandogli là le sue cose con la barca
e il furgone, ma non c'erano santi: dopo qualche mese, quando siamo
ripassati a vedere, il disordine e lo sporco erano impressionanti. E
poi lui non voleva stare a Mestre: dopo un po' è riuscito a cambiare i quaranta
metri seminuovi con venticinque metri vecchi e abbastanza malmessi
verso Castello, mi pare dalle parti di S. Francesco della Vigna, ma
noi non ce la facevamo ad aiutarlo a tenere in ordine: anche lì lo
avevamo aiutato a portare la roba, ma nel giro di qualche settimana era il solito casino.
Perchè Bepi beveva, scelta o destino del
quale nessuno può giudicare senza sapere con che incubi doveva fare
i conti. Il Don Giorgio gli aveva attrezzato una specie di sgabuzzino
in cui poteva lavorare, ma io gliel'ho visto fare piuttosto
raramente. Invece lo vedevo abbastanza spesso arrivare “carico”,
camminando quasi allegro e parlando ad alta voce. Le cose che diceva,
quelle sì facevano un po' problema. Il vino gli svegliava i desideri
e lo spingeva ad avvicinare le donne in modo indubbiamente poco
urbano: “Ciao, vulva...”, era uno dei suoi modi preferiti per
apostrofarle, signore perbene che affrettavano il passo tenendosi al
margine della calle o addirittura scappavano corricchiando piene di
paura. Poi mi guardava e diceva per esempio: “No ti senti che
spussa da mona?”. Io cercavo di farlo tacere e portarlo dentro, ma
a volte lui si rivolgeva al quartiere gridando in aria: “Che spussa
da monaaa!!!”. Le donne nel raggio di cento metri sparivano, ma in
realtà in quei casi Bepi non era pericoloso, bisognava solo gestirlo
un po'. Difficilmente faceva male agli altri: una volta diede due
pugni, ma sul muro della fondamenta, spellandosi le mani tanto da
dover ricorrere al pronto soccorso, dove si lasciò portare
docilmente e obbedì a tutti e a tutto. Io mi raccomandavo e lui mi
guardava con l'occhio acquoso e mi diceva: “Sì, stago qua, stago bon...”. E
poi chiudeva stretta la bocca e tornava muto e mite. Ogni tanto mi
diceva: “Che forte che ti sì, ti sì che ti sì forte...”, parole che non sapevo se
volessero esprimere un po' di gratitudine per quel minimo di
attenzione che gli davamo o fossero solo la nostalgia di una
normalità che in me vedeva ancora e che invece, quanto a se stesso,
sapeva di aver perso.
Il portone della comunità di Betania |
Tra Bepi e l'Anna Maria, incredibile,
c'era qualcosa. Di lui si poteva anche pensare che fosse in grado di rimediare
ogni tanto qualche donna. Al netto del degrado non era male come uomo
e poteva anche saper fare abbastanza da farsi accettare per qualche
tempo o saltuariamente da una del suo ambiente. Di lei sembrava
strano che, chiusa com'era nella sua bolla di ossessioni, potesse
essere sensibile a qualche tipo di comunicazione personale. Invece,
miracoli del sesso, qualcosa c'era. Ogni tanto, quando Bepi era in
giro, le diceva qualche parola e lei ascoltava e cambiava espressione, anche se poi di solito
se ne andava. Ma una volta in particolare, che lui aveva bevuto e a me era
toccato di tenerlo buono, mentre eravamo in fondamenta, giù dal
ponte che dà direttamente sul portone, è arrivata lei, l'Anna
Maria, che sembrava non avere per noi la minima attenzione salvo poi
fermarsi quasi di colpo quando Bepi le ha parlato rivolgendosi a lei
in un modo quasi da ragazzino che abborda la toseta in piazza
o alla sagra: “Ohi, dove ti va? Speta, speta, vien qua co mi,...”.
L'Anna Maria si ferma e, incredibile, sorride, sorride proprio. Si
schermisce inclinando la testa e nascondendo il viso nel bavero del
cappottino rosso corto che indossa e dal quale spuntano le sue due
gambe stecche, ma sorride. Io in pochi secondi passo dalla sorpresa
alla folgorazione. Mi viene il sospetto e, stupidamente, considero con stupore e raccapriccio la
possibilità che i due siano amanti. Solo
dopo qualche momento penso che in fin dei conti se potevano
scambiarsi qualcosa non c'era davvero niente di male e che l'unico
dubbio era se riuscivano a comunicare abbastanza per riuscire ad
avvicinarsi. E' stato più o meno allora che Bepi mi ha tolto i dubbi
chiedendo alla donna: “Vero che dopo ti ti vien co Bepi, ah? Bepi,
che el ga l'osèo bèo...”. L'Anna Maria si era fermata e si
dondolava appena su un piede, con un'aria che definirei sbarazzina se
l'aggettivo non fosse del tutto improprio rispetto alla sua
condizione. Però rideva quasi, imbarazzata e lusingata da questa
franca e affettuosa dichiarazione d'amore in pubblico, alla presenza
di estranei. E' stata una vera sorpresa (e insieme un ammaestramento)
questa scoperta che anche all'Anna Maria si poteva arrivare, mentre
io forse fino a quel momento avevo pensato che lei il cuore manco ce
l'aveva, o se ce l'aveva era sprecato, come dice il poeta.
E' per questo che, quando il Pazzo
Agitato vien fuori e minaccia di prendere il sopravvento, io penso
all'Anna Maria Sale: è una questione di spreco del cuore. Se il tuo
cuore va sprecato il rischio alla fine è che arrivi a soffiarti
attorno una bolla di ossessioni e ti ci chiudi dentro. Per questo, al
di là del decadimento fisico, ho un po' di paura che prima o poi,
complice la vecchiaia, potrei perdermi del tutto e cedere il passo a
qualche genere di demenza, finendo i miei giorni in giro per le
strade come un cane a gridare, a chiamare Michela. O qualche altro
nome, o quello di Dio, o anche niente di intellegibile.
(1) Questa volta il nome è autentico,
come lo è quello di Bepi, di cui infra. Se utilizzo dati che
per qualcuno sono sensibili e questo qualcuno lo viene a sapere, mi
scuso e sono ovviamente disposto a usare nomi di fantasia. Ma non
credo succederà.
(2)
Don Giorgio Bagagiòlo è vivo e sta bene, compatibilmente con i suoi
92 anni. Almeno credo: me lo ha detto un paio d'anni fa Tiziano, il
diacono permanente con cui ho condiviso parecchie cose di quell'anno
e rotti di vita, e me lo testimonia questo
articolo
di Gente Veneta. Il suo carattere non facile ma bello e il suo modo
personale e autentico di declinare il cristianesimo meriterebbero uno
spazio per loro conto. Magari. Prima o poi. [P.S. Scrivendo queste
due righe mi sono immaginato Don Giorgio che le legge scandendo bene
le parole, con la sua eterna aria di presa per il culo. Sono certo
che farebbe esattamente così, prima di mandarmi, diciamo, a quel
paese.]
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