domenica 2 settembre 2012

SUL LORO TERRENO (il rudere)

Tra le altre cose interessanti del giovane Kapuscinski polacco (1) c'è la storia di un prof. di storia, giovane, attivo e pieno di buone intenzioni, ma considerato dai suoi studenti un rudere.
E' un suo compagno di facoltà che lui rivede per caso dopo aver incontrato per strada un ragazzo che gli racconta di essere stato “segato” in storia da un prof. impossibile “uno che non capisce la vita” e che “ce l'ha con lui”. Allora si fa dire chi è il prof., il cui nome è Stepik. Ma lui lo conosce bene, Stepik, così decide di fare una breve deviazione verso la vicina città di Augustow per andare in cerca del suo vecchio amico. Lasciamo parlare Kapuscinski.

[...P]rofessore di liceo, tra lezioni, preparazione dei corsi e letture, Stepik è perennemente occupato. Insegna quello che sa, fa tutto quello che può, non si sottrae ai suoi doveri, è stimato dai superiori. Occupa una stanza in subaffitto, mette da parte i soldi per comprarsi la moto e d'estate visita gli scavi archeologici. Piccole cose che gli piacciono e da cui trae le sue soddisfazioni private. Quello che invece gli manca, è la soddisfazione professionale. Come insegnante non riscuote successo. Anzi! Stepik è sempre sull'orlo di una Waterloo pedagogica.
Mi assicura che non è l'unico a essere andato a picco e che l'intero corpo docente si è incagliato in un tragico punto morto. È comprensibile: avanti negli anni com'è, il corpo docente fa sempre più fatica a entrare in sintonia con i giovani. E tuttavia il corpo docente affronta i giovani come una forza compatta, il che lo mette in posizione di vantaggio. Gli attributi dei colleghi - i capelli bianchi, l'esperienza, il fatto di avere loro stessi dei figli iscritti all'università – sono anche la loro arma. Sono valori che conferiscono un'aura d'autorità. I ragazzi finiscono sempre per obbedire ai più anziani.
Ma Stepik appartiene solo formalmente al corpo docente. Ha la sua seggiola nella sala professori, i suoi turni di guardia nei corridoi, il diritto di scrivere note sul diario di classe. Il consiglio dei docenti lo tratta con la condiscendenza riservata a un collega più giovane. A uno che sta un gradino più sotto, all'intruso di un'altra generazione, al docente in rodaggio.
"Non importa," dice Stepik, "non è questo che mi preoccupa. La cosa grave è un'altra, e cioè che non riesco a trovare un linguaggio comune con i ragazzi. Faccio meno fatica a intendermi con gente di mezzo secolo più vecchia di me, che con un ragazzo di cinque anni più giovane.
All'università Stepik era un tipo di una vitalità incredibile. Attivista nato, era sempre in mezzo ad assemblee, riunioni e sedute d'ogni genere. Il sangue gli scorreva a cento all'ora. Non era capace di risparmiare le forze, le dilapidava fino all'ultima bruciando le energie senza tenerne da parte neanche un briciolo. [...]
Studiava di notte, dormiva su una scrivania del direttivo studentesco, ignorava che cosa fossero le vacanze [...]. Gli volevano tutti bene per la sua sincerità, per la sua serietà, per quella sua irrefrenabile, vibrante passione. Mangiava quello che capitava, si vestiva come capitava e via subito a parlare, a spiegare, a suggerire direttive, e sempre ai massimi livelli. I superiori lo mungevano come una mucca da latte: fai anche questo, fai anche quest'altro. [...]
Si caricava sulle spalle nuovi pesi, nuovi doveri e via, al galoppo, nella sua eterna corsa, nel suo eterno mulinello, nella sua pazzia! [...]
"Adesso non sono più così," dice [...]. "Non ho più la scintilla, lo slancio di una volta. Allora, invece... Ricordi quella riunione in piena notte, come cominciammo l'azione, come tutto sembrava andare a picco, come facemmo venire la gente, come persuademmo quelli che non ci volevano stare, come... come... come?" [...] Stepik rievoca, vede, risente ogni cosa sulla pelle: a quel tempo ha dato troppo di sé perché tutto questo non permanga anche oggi, persistente, schiacciante, insistente.
Un rudere?
Quegli anni l'hanno consumato: si è spompato, svuotato. Ha molto speso e molto incamerato. Si è creato una riserva di conoscenze, di esperienze, di sapere. Non ritroverà più l'energia necessaria per ricominciare daccapo. Ha una professione stabile, un lavoro fisso, un futuro prevedibile e poco brillante. Fa parte di un certo ambiente e, non essendo privo di ambizione, desidererebbe occuparvi una posizione più significativa. Vivendo, come fa, tra i giovani, ambirebbe a trasmettere loro il proprio passato. A stupire, a significare qualcosa, a sentirsi necessario. Gli piacerebbe continuare a istruire, venire considerato un'autorità, dissetare gli assetati.
Si sente giovane. Anzi, è la prima volta in vita sua che si sente giovane. Negli anni precedenti era stato troppo serio: mai uno sfogo, mai una mattana. Per questo adesso cerca un contatto con questi ragazzi la cui gioventù, secondo lui, trascorre meravigliosamente spensierata, senza svenamenti, senza crociate per salvare il mondo.
Ma loro lo considerano un barbogio.
Non sanno che farsene né di lui né della sua capacità di mobilitarsi all'istante, di smuovere gli indifferenti e di trascinare la gente con il proprio esempio. Anche se manifestassero un autentico desiderio di esaminare tutto quello che Stepik ha in magazzino, riuscirebbero forse a comprendere la natura, la funzione e la forma degli oggetti in esso contenuti? Afferrerebbero il senso delle sue spiegazioni? "Per mesi e mesi ho mangiato una sola volta al giorno," racconta loro Stepik. "Ma perché," chiedono quelli, più per noia che per interesse, "non aveva soldi?" "No, il denaro ce l'avrei anche avuto, ma chi aveva il tempo di occuparsi di certe cose?" spiega lui. "Ma come? Poteva mangiare, e non lo faceva?" si meravigliano quelli.
Non capiscono che cosa voglia. "Secondo me, lo fa per darsi delle arie," pensano.
"Tutta quella fatica per ricavarne che cosa?" mi ha chiesto il ragazzo incontrato sulla strada. "Non si è neanche comprato il televisore."
Il ragionamento del ragazzo è corretto, non fa una grinza, non torna a suo demerito. "Ho dato tot del mio e voglio tot in cambio": è così che ragiona quel tipo sveglio. Tutti i suoi calcoli si riducono a una questione di reddito, che a sua volta deve esprimersi in categorie materiali, nella nomenclatura del numero. Che cosa può mai rispondere, Stepik, a un ragionamento del genere? Nel migliore dei casi, lo prendono per un presuntuoso. "Si vanta senza motivo." Come dimostrare loro che si sbagliano?
Nessun film né, tanto meno, nessun libro ha mai immortalato la storia della generazione di Stepik. Non è mai stata raccontata. Anche se quel ragazzo sulla strada avesse la passione del passato, anziché quella del futuro, farebbe prima a conoscere la storia della generazione [...] di Wokulski (2) che quella del suo professore di storia. Quelli hanno trovato il loro cantore. Stepik, no.
Su Wokulski, il ragazzo incontrato per strada scriverà un tema di sei pagine, spiegando com' era. Di Stepik sa dire solo che è "un rudere".
Nient'altro.
Eppure si vedono tutti i giorni, chiacchierano, potrebbero porsi domande e cercare risposte. Non lo fanno.
A che pro?
"Ogni tanto vado a Varsavia," dice Stepik. "Agli angoli delle strade vedo gruppetti di giovani in attesa di qualcosa: ma di cosa? Oppure li vedo salire sul tram, entrare in un cinema. Nel loro atteggiamento, nel loro modo di fare c'è qualcosa che mi mette paura. Preferisco evitarli. Mi sembra che se dicessi loro: 'Scusate', non mi capirebbero. Facce che non riescono a esprimere un sentimento, mani che non conoscono gesti di tenerezza. Come faccio a saperlo? Così, un'impressione. Ho cercato di avvicinarmi ai miei allievi, ma non ci riesco. Mi hanno chiesto se avevo letto Joe Alex (3). No, non l'ho mai letto. Ho letto Rey (4), ma non Joe Alex. Gongolavano. Certo: uno che conosce Rey, che cosa può saperne della vita moderna? per sapere le cose necessarie e importanti al giorno d'oggi, non occorre rompersi la testa su quello che è successo nel passato. 'Nel passato' significa 'a partire da due anni fa'. Dico bene?" Che ne sapevo, io, se aveva ragione? [...].

Una prima cosa, a margine: mai, mai trattare con sufficienza un giovane collega e mettersi nell'atteggiamento di chi non riconosce le possibilità e il valore di qualcuno solo perché ha dieci o venti anni di meno. Parti dal presupposto che c'è sicuramente in giro qualcuno che oltre che più giovane è anche più bravo di te e che se ci hai a che fare ti darà delle idee e ti aprirà gli occhi su qualcosa a cui non avevi pensato (è successo, succede, essere freschi di studio è una condizione felice e miracolosa, anche se, appunto, spesso non basta a risolverti il lavoro...). Poi magari alla fine, come in parte è naturale, salta fuori che è lui piuttosto ad avere diverse cose da imparare da te. A quel punto cerchi di metterti a disposizione senza supponenza, mantenendo bene il senso dei tuoi limiti. So come ci si sente a essere trattati con sufficienza e ho sempre cercato di evitare di farlo a mia volta. Spero di esserci riuscito.

Ma anche qui il punto principale su cui mi viene da riflettere è un altro. Questo episodio forse non dimostra niente, tuttavia mi sembra un altro esempio del fatto che la diffidenza e la distanza che si crea tra te e gli studenti quando insegni è strutturale, antropologica, non più di tanto legata a tempi e luoghi. E magari vuol dire che, tutto considerato, forse è davvero quasi impossibile realizzare il mio obiettivo-sogno, cioè la possibilità che una società intelligente cambi la mentalità di ragazzi e famiglie fino a far diventare naturale un rapporto di sostanziale fiducia e collaborazione con la scuola.
Quello che succedeva a Stepik nella Polonia di fine anni '50 - primi '60 succede ancora continuamente. Quando tu arrivi in classe e lavori, loro hanno una gran voglia di avvicinarti, di trovare una dimensione di rapporto che permetta familiarità e magari amicizia, ma tentano di ridurre la distanza, sempre (o quasi) restando sul loro terreno, che è quello della vita quotidiana, delle esperienze elementari, dei bisogni e dei gusti, e mai (o quasi) venendo sul tuo, che è quello della formazione, dello scambio intellettuale, dell’esplorazione culturale. Una punta di enfasi in queste parole? Forse sì, ma anche fosse? Per quanto ne so mi pare che al mondo esistano posti in cui si sa che l’avventura intellettuale è una vera e grande avventura, una fonte di emozione continua e potente. Posti non tanto e solo in senso geografico e cronologico, quanto nel senso dell’ambiente, dell’atmosfera. Tendo a pensare che questi posti siano molto più diffusi all’estero che qui da noi, ma non è poi così importante. A sentire Kapuscinski la Polonia comunista di quegli anni non era esattamente uno di questi posti, ma lo è assai poco anche l'operoso nordest del presente. A scanso di equivoci preciso che certo, questi due “posti” forse sono un po' assimilabili per questo aspetto di breve respiro, ma sicuramente non lo sono per molti altri.
Comunque, questa io tendo a pensarla come un'altra conferma, indiretta, del fatto che non si fidano, ma anche come l'indicazione chiara che sul primo piano, quello della confidenza personale, la distanza non va colmata, o perlomeno lo si può fare legittimamente in qualche misura solo dopo aver ridotto significativamente la distanza sul secondo, quello dello scambio intellettuale. Mi pare rischioso (anche se non escludo che a volte possa funzionare) concedere qualcosa sul piano del rapporto personale prima che si sia stabilita un'intesa chiara. Non tanto sul fatto che tu comandi e loro obbediscono (questo è scontato ma non va fatto pesare) quanto sul fatto che quello che si deve fare insieme, l'uno con gli altri e viceversa, è studiare. Leggere pensare vedere visitare discutere eccetera. Ma in sostanza studiare: questa è la prima cosa e di qui non se ne esce e non se ne deve uscire. Solo così è possibile che poi, quando la vita li cambia, presto o tardi che sia, ripeschino pezzi anche importanti del lavoro che si è fatto insieme e se ne facciano veramente qualcosa. Teresa mi dice che lei quando li rivede non li trova cambiati. Forse qualche volta la trasformazione non succede, ma a me pare raro: sono pochi quelli che ho rivisto e a cui avrei detto volentieri: “Sei ancora lo stesso piccolo testa di cazzo di quella volta”. Nella mia esperienza basta aspettare tempo e cose abbastanza. Ma magari mi sbaglio.
L'unica cosa che potrei dire a Stepik è questa: che il dubbio che mi viene è che lui davvero un po' non capisca la vita. Il sospetto mi viene sentendo che non ha letto Joe Alex. Magari anche qui mi sbaglio, però per esperienza so che i fioi se tu non sai niente della vita se ne rendono conto e questo ti fa perdere un sacco di punti. Su questo sono sensibili come degli animali. Allora, nei panni di Stepik, io un tentativo serio di leggere Joe Alex lo farei.

(1) Il riferimento qui è a Ryszard Kapuscinski, Giungla polacca, Feltrinelli 2009 (il tascabile costa 9 €), da cui è tratto il brano riportato, p. 105-11 con tagli. E' una delle cose pubblicate tardi, dopo che Kapuscinski è morto e evidentemente l'editoria ha un po' raschiato il fondo del barile. Certo non la sua cosa migliore (rispetto ai grandissimi Ebano, Shah-in-shah, Imperium e La prima guerra del Football), ma comunque interessante. Per sapere un po' com'era il Kapuscinski giovane (lo ha pubblicato a 30 anni nel '62) e le cose che diceva, certo, anche per questo. Ma l'aspetto che resta di più è vedere come viveva e pensava un giovane giornalista con un retroterra di studi storici nella Polonia comunista del secondo dopoguerra, che spazi di pensiero pensava di potersi permettere, che cosa gli chiedevano di fare e con quali condizionamenti visibili o impliciti. Su questo punto direi che leggere questo libro mi ha confermato come sia sostanzialmente legittimo il paragone che uso spesso a scuola, tra il ventennio fascista in Italia e il comunismo dell'Europa orientale nell'epoca del patto di Varsavia, in termini di libertà e/o condizionamento della società e degli intellettuali. Articolare l'affermazione richiederebbe un po' di spazio, ma per ora la butto là...
(2) Protagonista del romanzo La bambola di Boleslaw Prus (1847-1912). [n.d.A.]
(3) Pseudonimo di Maciej Slomczyriski (1922-1998), anglista e traduttore di scrittori classici, diventato popolare come autore di romanzi polizieschi. [n.d.A.]
(4) Mikolaj Rey, oggi scritto Rej (1505-1569), poeta, prosatore e traduttore, considerato il padre della letteratura polacca. [n.d.A.]

4 commenti:

  1. No, non è che non cambiano, è che sotto sotto c'è qualcosa che rimane uguale. C'era qualcuno che aveva parlato di una cosa del genere, uhm, Aristotele? Mia zia Piera?

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    1. Non so chi è (era) il più saggio tra i due, ma è chiaro che "diventare" non è una questione di carattere (ma forse non è quello che intendi parlando di "qualcosa che rimane uguale", e allora forse non ho capito). Poi comunque si pone la questione di capire se e quando uno veramente "diventa", ma questo apre praterie sconfinate e perigliose.

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  2. "Ci sono molti modi" direbbero gli Afterhours, parlando dell'analogia dell'essere.

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  3. Eh, ma come faccio a sapere che modi intendi...

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