domenica 7 ottobre 2012

VERSO CASA, CON I TACCHI ALTI (età mentale 1)

Ci sono studenti che a 17-18 anni ne hanno 35.
Non solo nel senso banale e deteriore che credono di sapere tutto e guardano con sufficienza te che insegni e ti trattano con degnazione se non con disprezzo, considerandoti evidentemente un rudere. Questa è una malattia adolescenziale diffusa che spesso prende come oggetto polemico anche i genitori, anzi, i genitori più che gli insegnanti, e che non è poi molto interessante, anche se fa parte della sfida e della lotta che normalmente gli studenti-figli ci propongono e che va affrontata a viso aperto e con lealtà, non disconoscendo il proprio lato vecchio e dandosi da fare perché sia il meno esteso possibile: quando ti trattano da rudere una qualche ragione possono avercela e bisogna reagire con equilibrio. 
Ma non è a questo che penso: mi riferisco a quei pochi che 35 anni li hanno davvero.
Ok, 35 sono tanti. Ma ci sono ragazzi che al triennio delle superiori possiedono davvero e dimostrano sostanzialmente una personalità e un senso della realtà notevoli. D'accordo, loro credono di avere 35 anni e non li hanno. Ma ne hanno davvero parecchi più dei loro compagni, alcuni dei quali a volte sono ancora avvoltolati in una coperta di infantilismo che il nostro scintillante e spietato mondo di cartoni e giochini, ma anche la loro famiglia, ma anche il loro stesso ritmo di sviluppo, hanno contribuito a creare e a piazzare attorno a loro.
Insomma, certi ragazzi sono quasi adulti. Non quanto vorrebbero e tentano di essere, ma in sostanza lo sono sul serio, almeno in parte. Ad esempio per la loro capacità di calcolare in modo efficace le direzioni in cui investire le proprie energie, nel bene e nel male. E di concentrare queste energie facendole convergere verso quello che vogliono, come quando vanno a lavorare e reggono bene impegni duri e prolungati per procurarsi i soldi che servono a comprare qualcosa di vitale (per loro), o ad andare in giro a fare cose e vedere gente. O ancora, altro esempio, collaterale, per come sono capaci di stabilire con gli altri relazioni adulte e mature, di assumersi, in famiglia o in altri ambienti, nei confronti degli altri o di sé, grosse responsabilità reali.
Come si diventa così, come si diventa grandi così presto? Non lo so, ovviamente. In qualche caso si capisce subito che ci sono dietro e sotto vicende familiari complicate e dolorose che costringono a tenere botta di fronte a impegni veramente pesanti e difficili. Ma non tutti reagiscono così: ci sono quelli che di fronte a disgrazie o problemi familiari smettono di crescere e si paralizzano o rifiutano di vedere e di adattarsi, accettando di obbedire e di rinunciare a una parte di sé, ma senza prendere coscienza del problema, senza capire. E poi ci sono casi di maturazione precoce in situazioni del tutto tranquille, in cui sembrano essere proprio gli equilibri familiari (e magari la condizione economica e le possibilità che essa offre...), a permettere sicurezza e coraggio. Non so da cosa dipende, ci sono casi molto differenti tra loro, bisognerebbe vedere. Ma posso considerare due esempi: uno qui, l'altro un'altra volta.
Il primo è quello di L.P., ragazza intelligente, bella e piena di carattere, capace di ottenere risultati brillanti quasi dappertutto e di dedicare alla musica una parte molto importante, per tempo e energie, della propria vita. Ma anche estremamente autonoma, ambiziosa, piena di interessi e apparentemente sempre in condizione di amministrarsi, di decidere per sé in modo responsabile, di affrontare senza troppa paura o incertezza le conseguenze delle proprie azioni. Curata, truccata, elegante, con uno stile (credo) piuttosto fine nel vestire, fatto in genere di variazioni (sfumature e mezzi toni) sullo stesso colore. Capace di esprimersi con precisione e di affrontare situazioni problematiche in modo diretto e deciso ma insieme corretto e rispettoso, quindi spesso delegata ad assumersi compiti di rappresentanza eccetera, cosa che faceva di buon grado ma senza dare l'impressione di voler diventare popolare per questo o di farne per sé un'occasione di crescita “civile”: semplicemente sapeva che accettare di prendersi lei quegli impegni era la cosa più semplice per risolvere i problemi. Con compagni e compagne aveva un atteggiamento solo leggermente supponente: nessun disprezzo e nessuna superiorità ostentata, solo la presa d'atto di una differenza di condizione talmente evidente da essere riconosciuta da tutti, come dieci centimetri di statura in più. E dall'altra parte, i compagni, pochissima ostilità preconcetta e invidia, anzi, piuttosto una punta di ammirazione. Ma anche un'estraneità di fondo, come, appunto, quella che si prova da ragazzi nei confronti di chi è più grande e vive pensando a cose diverse, lontane e complicate.
Ogni tanto mi dava un po' fastidio il fatto che pensasse di potersi permettere tutto quello che lei riteneva giusto e sensato: a volte entravi in classe e ti toccava aspettare che lei finisse i suoi discorsi con le compagne per poter cominciare la lezione, perché lei di suo non si preoccupava certo di chiudere lì e andare a posto appena entravi, quindi capitava che lei decidesse di sedersi e prestarti attenzione solo due-tre minuti dopo che tu eri entrato e ti eri seduto a tirare fuori i libri e firmare il registro, minuti in cui restava tranquilla in piedi di schiena a puntualizzare bene le conclusioni del suo discorso. O anche il modo in cui, quando faceva delle osservazioni su qualche decisione da prendere, la metteva giù col tono di chi pensa che quello che sta dicendo è l'unica cosa ovvia da fare e che se qualcuno non se ne rende conto è uno che non capisce niente. In realtà poi le sue osservazioni erano sensate, quasi sempre. Ma qui un po' supponente lo era: a volte era un po' come avere in classe Bette Davis e ogni tanto un po' di sarcasmo, ma senza cattiveria, me lo tirava fuori. Ma nell'insieme non è che di studenti bravi e svegli come lei ce ne fossero (ce ne siano) molti. Dava l'impressione di conoscersi bene, aveva interessi precisi e li coltivava seriamente e con continuità, aveva le idee abbastanza chiare sul proprio futuro e la sua passione per la musica era certamente autentica, anche se a volte sembrava che in qualche misura la usasse per costruire l'immagine di sé a cui, evidentemente, teneva tanto. E' probabile che come donna potesse già risultare seriamente interessante per uomini molto più grandi di lei: quella volta che mi buttò lì che durante le vacanze di Natale (o Pasqua) era stata via col moroso a Berlino (o Barcellona o che), non ne fui stupito: lo faceva certo un po' anche per impressionarmi (o forse addirittura solo sapendo di impressionarmi), ma non vendeva fumo, lei era già così. Mi vedevo la discussione in famiglia su questi viaggi all'estero con un fidanzato (mi dissero, mi pare...) più che trentenne, e mi vedevo lei che pacatamente convinceva senza scampo due genitori che sapevo per niente sprovveduti, dando loro la sicurezza quasi completa che era in grado di gestire la situazione e che era pronta per impegni e situazioni di quel tipo. Non un carattere semplice, certo, ma anche una donna che dobbiamo essere contenti di sapere vitale e attiva, dalle nostre parti o altrove.
Da un po' non ho notizie precise di lei. Dovrei potermele procurare, volendo, con facilità. Quel po' che so del suo percorso successivo racconta di un diploma di Conservatorio ottenuto con una votazione alta e, all'Università, di un percorso prevedibilmente soddisfacente, nella direzione che aveva in mente da sempre. Non ho motivo per pensare né, ovviamente, mi auguro, che le cose siano andate o andranno diversamente. L.P. si merita tutta la riuscita e le soddisfazioni che ha avuto e che avrà. Meglio per lei, che potrà fare ottime cose, per chi le è vicino e per chi potrà aver bisogno del suo lavoro. Ma se penso a lei l'immagine che mi viene in mente è un'altra: tornando da scuola un giorno l'ho incrociata che andava verso casa sua, a piedi, dalla stazione delle corriere. Borsa pesante, cappotto corto alla moda, passo svelto malgrado i tacchi alti, capelli un po' scomposti, espressione che tradiva più di sempre la fatica di essere così, di voler dover essere sempre quasi perfetta. Ma anche la fatica di non lasciar vedere la fatica, di mostrare sempre disinvoltura, di non chiedere mai aiuto e di affrontare tutte le sfide con sicurezza, senza confessare debolezze. “Dio, – ho pensato – questa prima o poi potrebbe esplodere...”. E poi: “Speriamo che non succeda”, ho pensato. E non è detto che succeda: le auguro di tener duro, può farcela di sicuro, è probabile che ce la farà. E le auguro che quello che vuole le basti, le auguro di essere felice.

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