giovedì 6 dicembre 2012

ANIMA IN PENA

Aveva fin gli occhi spioventi. Tristezza silenziosa, tenace e profonda. Grande scrupolo, pagine e pagine di appunti, fatica a capire tutto quello che richiedeva un po' di familiarità con quel mondo da cui veniva accuratamente tenuta separata, protetta. Richiesta tacita di avere cose semplici da studiare e ripetere senza troppi enigmi, il che non è inusuale ma ovviamente è impossibile. Nel caso di L.Z. poi non c'era neanche quel punto di recriminazione contro la difficoltà delle cose (o contro di te che le rendi complicate quando potrebbero essere semplici) che c'è in tanti sguardi provenienti da anime che almeno un po' di sicurezza di sé ce l'hanno dentro.
Di solito, quando di qualcuno dici che è un'anima in pena, sottintendi che c'è una spina, un chiodo, qualcosa che tormenta e non si risolve ma che potrebbe, almeno potrebbe essere tolto. La sua invece pareva una cosa cronica, un male a cui non si può se non rassegnarsi, e contro il quale non aveva senso cercare di reagire. Non le avrebbe impedito di sopravvivere, questo dicevano il suo corpo magro magro e la sua camminata lenta e passiva: era un male con cui si poteva convivere ma che ti avrebbe sempre e per sempre tolto la speranza.
E' solo uno dei tanti casi in cui vedi in classe uno o una che hanno qualcosa e ti chiedi cosa. Lo/la tieni d'occhio con una certa costanza e cerchi di andarci piano, pur senza fare sconti. Naturalmente non ci arrivi, ti mancano gli elementi, ti rendi conto che è una cosa che viene da un al di là rispetto a quello che tu puoi vedere tutti i giorni. Poi, dopo qualche mese, alla prima occasione di incontro, vedi il genitore (o la genitrice). E allora capisci subito e pensi subito che, povero/a, è anche troppo bravo/a a essere quello che è. Anche del genitore-macigno esistono diverse varianti, nell'analisi delle quali non entriamo. Comunque tu ne avverti subito il peso e li compatisci tutti e due: il genitore inconsapevolmente (e non sempre incolpevolmente) artefice della demolizione e il figlio che si puntella come può per evitare di crollare. Anche lì la densità della sofferenza che senti traspirare è molto alta.
Nel caso di L.Z., per fortuna, un po' alla volta il lavoro regolare e un po' cieco che faceva le ha permesso di prendere familiarità con le parole, di avere presenti almeno in astratto i termini delle questioni e nell'insieme di portare a casa voti sufficienti e a volte discreti. Un po' alla volta ha cominciato a fare qualche sorriso timido e incerto, ad apparire più sollevata, anche se fino alla fine ha continuato a non partecipare a quello che succedeva, sempre solitaria, pelle chiara chiara e capelli neri neri, sempre legata a un preciso altrove, che monopolizzava le sue emozioni, più che non presente a se stessa e a noi che le stavamo intorno. Negli ultimi mesi forse aveva cominciato a concepire l'esistenza del mondo esterno, a pensare almeno per ipotesi che la sua vita le potesse appartenere sul serio. Non credo avesse ancora una forza sufficiente a sopravvivere da sola, lontano da casa, in un posto tipo università, ma anche di lei, naturalmente, spero che abbia attraversato le sue giungle: se è riuscita a tenersi nascosta al flusso delle cose per un tempo lungo abbastanza da permetterle di fare qualche esperienza e prendere fiducia un po' alla volta, potrebbe avercela fatta. Anche per lei ci sarebbe da dire ogni tanto qualcosa come una preghiera, ma non la vedo mai e non me ne ricordo. Almeno l'ho fatto questa volta, visto che, chissà perché, mi è tornata in mente...

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