giovedì 7 febbraio 2013

PADRE JEAN

Far vedere i film a scuola è sempre un rischio. Naturalmente non si usa mai il film come surrogato di una lezione, salvo vere emergenze. Occupare semplicemente l'ora con un dvd è una scelta per cui si paga un prezzo non proprio indifferente, è uno di quei mille possibili errori quotidiani che contribuiscono sia a trasmettere a te e ai fioi il senso della tua inutilità come prof. sia a dare l'idea che un film è una specie di frivolezza che ci si può permettere in modo leggero, con la licenza di buttare via senza pensarci quello che si riceve.
Non sto a farla lunga su come bisogna prima preparare la proiezione e poi trovare il tempo per ragionarci un po' sopra. Sta di fatto che la cosa è sempre impegnativa. Per questo il più delle volte si arriva a decidere che, facendo lezione normalmente, non è il caso di investire così tanto tempo per un film intero: se proprio serve si scelgono due spezzoni per un totale di 15 o 20 minuti e ci si attacca a quelli col discorso. Sapendo che anche per questa sola operazione ti tocca prima vedere il film, scegliere le parti da mostrare, prendere confidenza con lettore, telecomando e schermo, per non perdere tempo dopo, mentre sei in classe e li devi tenere concentrati.
Altra cosa sono le volte in cui ne hai tanti, magari comunque in un tempo un po' limitato, e devi provare a dar loro da vedere qualcosa che siano in grado di accettare, che non dia loro solo l'impressione della solita cosa pallosa che si fa a scuola e che si subisce passivamente e si respinge interiormente, potenziando l'effetto “mucchio di rifiuti” che già tante delle cose che gli insegni rischiano di produrre. E allora devi scegliere con attenzione, pescando non troppo lontano dalle loro acque e trovando una cosa che parli almeno un po' la loro lingua. E comunque mettendogliela giù in modo che evitino di sentirsi autorizzati a buttare via quello che gli dai. Il che non è mai facile.

L'altro giorno. Niente in programma per la giornata della memoria e spiace lasciar passare così la faccenda. Io so di non avere in testa quasi neanche un angolino per pensarci, ma qualche collega si muove e pensiamo cosa fare, una cosa semplice ma qualcosa, anche perchè è la settimana dei recuperi, le lezioni regolari sono sospese e chi non ha recuperi da fare fa altro. Per esempio? Per esempio legge la Lettera sulla tolleranza di Locke in quarta e una cronaca dell'assedio veneziano a Padova del 1405 in terza (in realtà un saggio di Dario Canzian da Fontanelle, prof. di Storia Medievale a Padova). Tanto per proporre qualcosa di sensato senza doversi spaccare la testa per inventare attività meravigliosamente didattiche e ludiche insieme. 

Alla fine per la faccenda della memoria ci orientiamo sul vecchio Arrivederci ragazzi di Louis Malle, pensando che almeno è una cosa che probabilmente i fioi non conoscono e che è talmente bello e fine che dovrebbe funzionare, anche se ha la forma un po' retro del racconto di formazione classico. E dopotutto funziona: due botte da 150 studenti prima e 200 poi si mandano giù il film tranquillamente e, in parecchi casi, con qualche frutto, almeno si direbbe, a sentire alla fine un po' dei loro commenti, sostanzialmente spontanei.
Va detto che prima del film a scanso di equivoci decidiamo di minacciare con una certa fermezza un provvedimento semplice: chi rompe anche solo un poco viene portato fuori e invece di vedere il film sta in un'aula fermo e buono con un prof. che lo sorveglia-assiste. Una presentazione abbastanza rapida, una scheda che non si sa quanti abbiano fatto lo sforzo di leggere, riciclata da una proiezione simile di qualche anno fa, ma scritta con cura, con taglio didattico e linguaggio abbastanza semplice (1). Poi si va e si spera che il film faccia la sua parte.

Ma non basta. Lo studente N.S., seduto in fondo alla sala, dopo trenta secondi di proiezione, sulle immagini del protagonista Julien che saluta la madre in stazione partendo per tornare in collegio, ad alta voce commenta pressappoco che è proprio un bel film. Cosa si fa? E' come l'arbitro che in un secondo deve decidere se fermare il gioco o concedere il vantaggio. Decido di intervenire e vado lì dicendogli di venire fuori con me. Ci metto un po' perchè si rifiuta abbastanza a lungo. Insisto senza gridare ma facendo capire che sto per incazzarmi. Dopo qualche minuto esce e lo affronto, con l'aiuto della collega T. Lui insiste che ha detto sul serio, che il film lo ha visto in passato e che gli era piaciuto e che non era ironico, ma non argomenta, non spiega, ripete solo le stesse frasi. Gli chiediamo quando lo ha visto e cosa se ne ricorda per poter dire che è bello e gli facciamo osservare che per essere credibile dovrebbe poter dire qualcosa in più. Lo teniamo fuori qualche minuto, poi lo rimandiamo dentro sperando che si sia spaventato abbastanza da stare zitto. Torniamo dentro tutti a seguire il film e la cosa, come si diceva, funziona. L'intervento su N.S. è stato determinante per tenere gli altri tranquilli? Non so, non credo. Non sono neanche sicuro di aver fatto bene. Ma a scuola ti capitano ogni giorno due o tre di questi problemi e la tua efficacia e credibilità si costruisce e/o si perde un po' ogni volta che a queste situazioni reagisci nel modo giusto o sbagliato. Ci vuole equilibrio e mestiere. E non sai mai se ne hai abbastanza.

Poi io credo che il film faccia la sua parte in misura sostanziale, che la qualità della cosa che proponi alla fine sia decisiva. Però a volte è capitato che anche cose veramente belle non funzionassero: non sai mai bene come reagiscono finchè non li vedi lì a guardare e ti rendi conto che si stufano e si perdono e parlano e rompono, oppure seguono con gli occhi puntati e in punta di sedia. Il racconto di Au revoir richiede solo un minimo di pazienza, ma poi entra dentro da solo man mano che va avanti. In fin dei conti sono due ragazzi che si incontrano e che, in modo naturale e quasi ovvio, attraversano uno dopo l'altro i passaggi che portano a conoscersi meglio e a diventare amici. L'umanità non è una faccenda complicata: basta restare lì e fare le cose insieme agli altri, con quel po' di attenzione e rispetto che serve a non offenderli, a farli sentire accettati. Se racconti una storia presentandola in questo modo, come un evento semplice, come un fenomeno naturale, proprio come racconteresti la pioggia che cade o il vento che muove le foglie degli alberi, è chiaro che poi, quando quasi di colpo metti a confronto questa umanità con l'odio cieco, questo ti risulta completamente incomprensibile.
In più, sopra a tutto il racconto è sempre stesa l'ombra della memoria e dell'affetto per il proprio passato, un'ombra che copre e protegge anche tutta la scuola, i frati e le figure dei prof., a ciascuno dei quali è riservato un ricordo specifico che a ciascuno riconosce una consistenza autentica e a tutti riserva un rispetto sincero. Di questa statura morale l'impronta originaria si trova in Padre Jean, il direttore, il primo responsabile del clima di rigorosa e severa fratellanza che, al di là di tutto, i ragazzi respirano in quell'ambiente. Il suo saluto finale, asciutto quanto doloroso, è un titolo perfetto per il film. Ma di lui io penso soprattutto alla sorprendente e durissima predica contro la ricchezza, rivolta a genitori borghesi che, durante la guerra, in un paese occupato dai nazisti, possono permettersi di parcheggiare i loro figli in campagna. E penso anche alla frase che si lascia sfuggire durante la confessione di Julien, quando a sua volta confessa, per dissuadere il ragazzo dal miraggio di una vocazione religiosa velleitaria, che il suo “è un mestiere d'inferno”. E penso che mi fa davvero peccato.

(1) La scheda è qui. Se servisse a qualcuno, la si può usare liberamente. Invece, volendo, qui c'è il saggio di Dario Canzian.

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