giovedì 2 maggio 2013

(SE NON AVESSI QUESTA VITA MORIREI)

Ciao Maria. Ho dovuto trovare il tempo per andare per ordine e metterci l'attenzione che serviva, ma alla fine sono riuscito a leggere tutto, da novembre 2010 a oggi. Ho seguito, io che ti conosco così poco, il filo della tua storia, di cui si distingue approssimativamente lo sviluppo, passaggio dopo passaggio, parentesi dopo parentesi.
Ho fatto e faccio il tifo (sinceramente, ti assicuro) per la tua (vostra) ostinazione e resistenza nel cercare di correre quella specie di corsa a ostacoli che è la tua (vostra) vita. Non che non ce ne siano di altrettanto o anche più difficili, lo sappiamo bene: non che non ce ne siano parecchie di queste vite che, viste da vicino, si rivelano esempi di qualche genere di eroismo. E non che tu cerchi di farne un'impresa epica. Ma quello che si pensa subito è che persone come te meriterebbero che la loro fatica, magari la stessa come quantità e intensità, fosse spesa meno a vuoto, fosse messa più a frutto, permettesse a chi la fa di mettere le radici per terra e di realizzare quello che può e vorrebbe, invece di disperdersi e andare sprecata dietro a necessità e vincoli che pure stanno lì e forse avranno anche una ragione.
Intendiamoci, non penso affatto che quello che vorresti è una vita facile. La donna di cui racconti, quella che era senza lavoro e poi se lo è conquistato e adesso lo fa con scrupolo e coscienza (cosa di cui, se non leggo male tra le righe, la tua capa-santa pare rendersi sostanzialmente conto) e ancora le pensa e le prova e le studia per vedere se riesce a ricavarsi lo spazio e il tempo che le serve, quella donna mi pare che non abbia davvero paura di faticare, mi pare che combatta proprio nel modo in cui è giusto combattere, con le rotelle della testa che girano sempre e con l'impegno di trovare un minuto e un pensiero per tutto quello e per tutti quelli che fanno parte della sua vita. Probabilmente ti basterebbe qualche volta una mano in più o un briciolo di comprensione che non sempre c'è, ma permettimi di dire che l'impressione da fuori è che niente di quello che fai sia privo di senso.
L'impressione è che tu pensi che uno non ha il diritto di parlare se prima non ha fatto la sua parte, ma che, quando l'ha fatta come si deve, deve anche poter dire la sua e mettere il dito su quello che gli pare storto. Che sai davvero che non si arriva mai e che bisogna sempre stare in campana e non accontentarsi di quello che si sa fare perchè non basta mai e non si sa mai di cosa si ha bisogno. Che fai tutto il possibile per far bene le cose ma sai che spesso non basta e che a decidere di noi, in bene o in male, spesso sono fattori che stanno fuori della nostra portata e che non solo non controlliamo ma manco abbiamo bene idea di dove stanno. E che questo non è giusto ma che è un'ingiustizia a cui ribellarsi non serve anche se la voglia di farlo resta. Che sai che lavorare è una questione di dignità e di rispetto e proprio per questo non si può perdere la dignità né per trovare un lavoro né per tenerselo, altrimenti il rispetto non c'è più. Che a volte ti pare che avresti voluto una vita magari più luminosa, ma sai anche, speri, che questa specie di penombra dentro la quale in genere cammini non è poi affatto un brutto posto e non è affatto poco importante, anche se a volte hai paura di farti inghiottire da una nebbia grigiastra che ti impedisca di essere felice sul serio.
E quando hai questa paura e la racconti, allora spero che qualcuno o qualcosa torni a dimostrarti che ti sbagli e torno a leggere le righe in cui ti scappa di ammettere che quel giorno o quell'altro felice in fondo ti sentivi. Perchè sapere che fai quello che fai e pensare che avrai la forza per continuare a farlo, un po' di coraggio lo dà anche a me. E, immagino, a qualche altro che conosco e a qualche altro che non conosco. E, naturalmente, se quando racconti mi fai questo effetto è chiaro che non è solo perchè parli dei gatti e di San Polo e delle Fondamenta della Misericordia. Il punto è come riesci a fare in modo che le parole che dici dicano precisamente le cose come stanno, dicano proprio la verità di quello che succede, che però a guardare semplicemente con i propri occhi non la si riuscirebbe a capire. E la dici, questa verità, mettendotici in mezzo e srotolandola fuori un poco alla volta, parentesi dopo parentesi, facendola galleggiare tra un'ellissi e l'altra. Non mi pare precisamente una qualità come un'altra, che uno impara col tempo e l'esercizio ma che non c'entra gran che con la sua anima. Salvo eccezioni forse importanti (per esempio dicono che Montale era un uomo meschino...) credo che chi sa fare questa cosa sia una persona preziosa di cui ringraziare il cielo, una che dove la metti fa bene quello che fa, anche se invece che ad assistere qualche genio della volumetria in un prestigioso studio sta nell'ufficio A del comune B. E quelli che lavorano in questo ufficio, se appena hanno un briciolo di senso, si dovrebbero chiamare almeno un po' contenti anche solo di averla dalla propria parte, questa donna, sapendo che di lei si possono fidare e che un po' di problemi li risolverà anche per loro, e sarà una mezza benedizione, come succede tutte le volte che si lavora con qualcuno di bravo, su cui non ci sono dubbi.

Per il resto non ho modo di rassicurarti sul serio: mi hai quasi convinto che nascere nei tuoi anni, circa vent'anni dopo i miei, è stato comunque un errore fatale per chiunque lo abbia commesso. Che la distanza che il tempo ha messo tra me e te è più o meno quella che aveva messo prima tra me e i miei padri, quelli che vivevano in un mondo semidistrutto ma semivuoto, in cui si stava un po' scomodi e potevano capitare tante disgrazie, ma c'era un sacco di posto sulla terra, non ancora tutta consumata dai fabbricati come adesso. Il mondo che ho attraversato io non era particolarmente facile: già allora mi dicevano che sarebbe stata dura, che non c'era spazio e chissà cosa avrei potuto fare e cosa me ne sarei fatto delle cose a cui ero corso dietro perchè mi piacevano tanto. Ma adesso, di questi tempi, sembra davvero che per voi procurarsi una possibilità qualsiasi comporti la svendita di parti vitali del corpo, un qualche espianto o amputazione.
E come sempre mi guardo e mi chiedo se ho fatto qualcosa per evitarlo (lo so che nessuno mi accusa...) e mi rispondo che anche ai miei tempi ci sono stati anni in cui tirare l'anima coi denti era esercizio quotidiano, ma forse non per così tanta gente. E poi mi dico anche che comunque, per me, ho fatto il possibile per attrezzare i pori Cristi che mi son capitati sotto, per abituarli ad allenarsi in modo da avere abbastanza resistenza alle botte e alla fatica. C'era una classe a cui dicevo pressappoco: “Qui vi sembriamo aguzzini e torturatori, ma poi vi renderete conto che in fondo vi abbiamo trattato abbastanza bene: è fuori di qui che vi prenderanno a calci sui denti, quindi non avete altra scelta che rinforzare le gengive. E io sono Mentadent P!!!”. Ridevano abbastanza. Poi sono stati carini: a fine anno mi hanno regalato una maglietta col marchio del dentrifricio, che ho conservato e messo fino a che non si è disfatta. Qualcuna perfino piangeva (erano quasi tutte tose) quando ho dovuto lasciare la classe. Salvo poi raccontarmi, l'anno dopo, che il mio successore era un genio inarrivabile (provocandomi una punta di gelosia che poi comunque mi è passata subito).
Ho fatto i conti per vedere in che classe sareste capitate se all'epoca io fossi stato il vostro prof.. Teresa sarebbe finita in una classe di quasi tutte femmine (n.16) e pochi ragazzi smarriti (n.4), invenzione delirante di non so che preside dell'epoca. Mi sia permesso: era un solenne gallinaio. Che dipendeva, come sempre, dall'alchimia specifica che si era prodotta tra i soggetti coinvolti nella reazione, ma nella quale secondo me lo squilibrio nella distribuzione favoriva dinamiche perniciose. Comunque di certo alcune ragazze, quelle di cui ho notizie più spesso, si sono salvate abbastanza bene e per quanto ne so sono autentici esseri umani. Se ho una vaga idea di com'era Teresa a quell'età, penso che sarebbe fuggita entro un anno per evitare di fare una strage. Oppure ci avrebbe convissuto a fatica, soffrendo abbastanza e comunicando un po' solo con tre-quattro persone e riuscendo a rimanere un po' amica solo di una o due.
Tu, se il conto è giusto, saresti capitata in una classe interessante, quella di T.R., il moroso di C. G., la ballerina (che però è veneziana e non era in classe con lui); è la classe della gita coi due piccioni occasionali sulla porta della camera, di cui ho parlato qui. Una classe quantomeno interessante, in cui avresti trovato da divertirti. Penso che, se fossero venuti in vacanza a Lignano, certo che ti avrebbero avvertito e quell'estate vi sareste visti tutte le sere o quasi. Penso che con qualcuno vi vedreste ancora e che qualcuno di loro avrebbe dormito più o meno di frequente sul tuo divano o sui materassi di fortuna. Penso anche spesso a come la scuola incide la vita di una persona in modo profondo e incancellabile anche solo costringendola a vivere per cinque anni insieme ad altre persone, proprio quelle, in una combinazione casuale e a volte fatale di caratteri e sentimenti della quale i risultati sono difficilissimi da prevedere ma quasi sempre molto forti e pesanti.

La vita è sempre sporca, ma soprattutto è storta e ingroppata: se prendi la mia e la tua e qualche altra e le metti vicine, comunque non è facile capire qual è la più lunga. Ma a nessuno di noi, credo, interessa misurare. E a nessuno di noi possono davvero servire le soluzioni degli altri. Che del resto chissà poi se e fino a che punto hanno risolto. Quindi è inutile che io stia a raccontarti storie, per quanto vere siano. O meglio: te le posso raccontare fin che vuoi e hai la pazienza di ascoltare, ma devo sapere quanto te, che lo sai bene da subito, che non se ne ricava materiale utile. Quindi, invece, finchè posso ascolterò le tue, di storie. E continuerò a portare per te e per voi e per il vostro ostinato tentativo di mettere le cose una sopra l'altra anche se non stanno su, come faccio il tifo per me e per i miei progetti su cui, classicamente, sento sempre qualcuno in lontananza farsi grasse risate. In fondo spero che sia Dio e che stia pensando che, visto che l'ho fatto ridere di gusto, può anche avere un po' di compassione. Ma non ci metto la mano sul fuoco.

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