mercoledì 24 aprile 2013

MOSTRI A VICENZA (la verità, magari, sull'amore)

Quando qualcuno guarda le cose come se il suo occhio fosse stato tagliato da una lametta (1), ti mette sempre paura. Per la verità quando cominci il romanzo ti viene da storcere un po' il naso vedendo che è la storia di un giovane scrittore de Vicensa che racconta la storia di un giovane scrittore de Vicensa (2): ti viene naturalmente il sospetto che qualcuno ti sottoponga i risultati delle proprie analisi del sangue per poi parlarti della propria malattia. Invece le righe fitte fitte senza spazi cominciano subito a lasciar filtrare fuori una alla volta alcune ombre terribili di cui si descrive e circostanzia l'aggirarsi torbido per le strade della nota città di provincia.
La quale, così popolata, diventa via via una specie di cronicario psichiatrico in cui non si sa bene se qualcuno o qualcosa di sano ci sia. Di mostro in mostro, l'elettricità che si accumula fa contorcere l'aria e fa vibrare il panorama come uno schermo disturbato, mentre il protagonista Thomas (evidentemente uno che respira e soccombe), nel tentativo di capire se esiste una via per sottrarsi alla persecuzione e all'accerchiamento dentro il quale le spaventose creature lo stanno stringendo, setaccia la memoria per vedere che cosa lo ha portato a essere lì e in quel momento, che cosa lo ha reso la vittima perfetta della macchinazione che lo sta per sorprendere, anche se è dall'inizio della storia che sta in campana e si guarda le spalle. Così, nella rete fissa del tamiso, restano prese cose come un padre poliziotto e la scuola dai preti, elementi abbastanza classici per la speleologia interiore di un semigiovane veneto di quest'epoca. Ma poi, da un grumo duro di sabbia, salta fuori e si ferma in mezzo al telaio una morosa importante, alla vista della quale lo scrittore de Vicensa si mette a scalpellare, dopo i tanti aspetti della condizione umana che ha abilmente e intelligentemente sfregiato con il suo arnese a punta, anche l'amore.

Il fatto che lo faccia riferendosi strettamente a sé e all'intensità della propria paranoia, facendoci guardare le cose in soggettiva (come del resto avviene per tutto il racconto), non impedisce alle fratture prodotte dai suoi colpi di essere profonde abbastanza da investire anche il nostro, di amore. D'altra parte si è capito che la sua strategia è questa qui: di prima botta la mostruosità scava una certa distanza rispetto a te che leggi, ma mentre vai avanti vieni riassorbito dalla situazione e ti ci senti tirato dentro gradualmente fino a riconoscere che in fin dei conti la tua stessa Vicensa, la tua stessa vita e famiglia e lavoro, il tuo stesso amore, assumono tratti, se non mostruosi, comunque almeno sgraziati e goffi, tanto che finisci per guardarli anche tu come filtrati da uno schermo di infelicità densa. La riconosci (perchè l'hai conosciuta) questa infelicità. E provi un moto di irritazione contro lo scrittore de Vicensa che te l'ha rimessa sotto il naso, mentre il tuo sforzo quotidiano è quello di aggiungere e togliere argilla alla tua stessa forma per cercare di restituire, a te e alle cose e persone che ami, dei tratti umani, che almeno si possano guardare con vera pietà, magari qualche volta con affetto, anche se sai che la vera bellezza abita lontano e non la puoi raggiungere. Tu ti sbatti e sudi per poter vivere e anche per poter dire che tutto sommato stai vivendo. E questo qui, lo scrittore de Vicensa, è un altro dei tanti eretici dei miei coglioni che giocano con le creature degli abissi come se fossero il loro cane e che tirano il bastoncino alla piovra gigante che poi – oh, che sorpresa - invece di riportarglielo li stritola coi tentacoli. E' in questo modo che alla fine anche tu ti ritrovi i mostri intorno: colpa di questi scriteriati che seminano il nulla a manciate, come i contadini di una volta, da una borsa che portano appesa alla cintura e che, guardacaso, è sempre piena. E il nulla è notoriamente il cibo preferito dalle creature degli abissi, che ne sono attratte e vengono a galla e poi alla fine si mangiano anche te, mettendosi ad aspettarti dietro l'angolo la mattina mentre vai al lavoro.

Sei un po' incazzato, ma in fondo ti rendi conto che è perchè sai che questi eretici dei miei coglioni un bel po' di ragione potrebbero avercela. Lo sai, anche se tu è da sempre che, pur con dentro questo oscuro sospetto, ti sforzi di combattere per fare luce e aria e per lasciare un po' di spazio e vita a tutto quello che vuole vita e spazio e aria e luce. E quando trovi qualcuno che ti sembra voglia combattere con te dalla tua parte sei tutto contento e sorridi e ti senti rincuorato. E invece quando trovi qualcuno di questi spandimerda a gratis che ti succhiano il midollo della schiena e ti lasciano svuotato e fragile come un rigatone, ti irriti e li vorresti sfidare a duello e chiamarli vigliacchi senza pietà e senza un briciolo di cuore. Ma sai benissimo che molto spesso sono bravi e intelligenti e ci vedono dentro, e che non si può vivere con la testa per aria, scrivendo pensierini sulla pace nel mondo come i bambini della classe della maestra Parmina. Dunque hai bisogno anche di loro, che ogni tanto ti prendano a calci in culo. Non sei sicuro che ce ne sia proprio tutto sto bisogno: non è che per il resto non siamo abbastanza presi a calci in culo da tutto quello che abbiamo intorno. Ma alla fine tocca anche un po' ringraziare chi per caso ti ricorda che, se certi giorni in cielo c'è una certa luce, se in quei giorni ti sposti di un passo rispetto a dove ti metti di solito, ecco che allora Vicensa ti appare tutta diversa e le persone diventano mostri e il fiume fango puro e le case catapecchie sporche e infestate dalle pantegane. Ma è qui che devi trovare il coraggio di continuare a combattere.

Così, per mettere l'amore al riparo dai colpi di scalpello, pensi. Il mito barbuto secondo cui la magia dello sguardo e del cuore cominci a sentirla prestissimo, appena ti insegnano a mettere in ordine la roba e a tirare le righe dritte e a cantare intonato, funziona ancora, molto, ma ha un punto debole che tutti conosciamo, del quale sembra non ci sia protezione possibile da quando gli scienziati ci hanno informato che contro l'entropia dell'universo non c'è niente da fare. Ma invece trovi che sia vero, profondamente vero l'altro discorso, la registrazione pre-antropologica del fatto che non possiamo parlare e essere niente se non da quando e perchè guardiamo negli occhi qualcun altro e ci parliamo insieme. E chi ripete questo discorso non prova a mettersi a fare dimostrazioni, ma semplicemente parte dalla constatazione, sempre presente, di quanto ci è indispensabile parlarci.

L'intuizione più precisa e, nella sua tristezza, felice dello scrittore de Vicensa è l'immagine della nostra solitudine radicale e irriducibile come un territorio ostile, una zona impraticabile che ci portiamo dentro, in fondo da qualche parte e che, per quanto possiamo voler bene, resta inaccessibile a chi ci sta vicino e prova a entrare. Ma il punto è che a me pare sia proprio lì che vogliamo davvero che la persona che amiamo arrivi, vogliamo che ci passi almeno ogni tanto, che sia almeno capace di buttare un occhio. E con quanta pazienza siamo disposti a farle da guida e a disegnarle la strada, ad aspettare il tempo che occorre. E quanto consideriamo prezioso e caro chi ha il coraggio di mettersi per strada per provare a raggiungere il luogo. A volte vediamo stare insieme persone tra cui non capiamo quale possa essere il legame: in questi casi io penso spesso che si tratti di questo, della capacità che uno ha e del permesso che l'altro dà di arrivare in fondo, nel fondo. Poi, certo, è davvero difficile mantenere aperto il sentiero e ricordare la strada e quanto sia necessario tornarci con regolarità sufficiente a tenere a mente quello che si è visto: ci vuole una grande determinazione. Poi c'è chi mi dice che se c'è la determinazione allora l'amore non c'è. Ma io non ci credo.

Questo non risolve tutti i problemi, ma riduce a una lama di coltello lo spazio per affermare che non è possibile ripulire la parola amore dalle (riconosco) infinite incrostazioni e sporcizie che la ricoprono e la deformano e dall'usura a cui è sottoposta dalle (indubbiamente) infinite volte in cui ricorre masticata in discorsi alti meno di un millimetro e tritata da canzonette e scene più o meno insulse o menzognere. Perchè è una parola che anche sotto uno strato di calcare, anche consumata da milioni di contatti, manda un suono riconoscibile a chi ha un po' di orecchio, a chi riesce ancora a sentirci. E a me pare che questo suono si senta bene anche in posti dove tutti lo cercano, malgrado tutti lo cerchino proprio lì. Le ragazze di Firenze vanno all'amore e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, tu che con gli occhi di un altro colore mi dici le stesse parole d'amore: ne abbiamo avute di occasioni, perdendole. Non rimpiangerle mai. Vorrei trovare parole nuove ma piove piove sul nostro amor e di pioggia in pioggia di dolore in dolore il dolore passerà. Speriamo.


P.S. I ponti di Madison County di Clint Eastwood è un film bello, semplice e potente e chi sostiene il contrario è uno spandimerda a gratis vigliacco e senza pietà.

(1) Naturalmente si parla di Un chien andalou di Luis Bunuel (1929) La celebre scena dell'occhio è a 1' 50" del video. 

(2) Vitaliano Trevisan, Un mondo meraviglioso, Einaudi 2003.

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