lunedì 9 settembre 2019

CUT


Da tanti anni voglio bene a Paolo Conte. L’ho ascoltato molto, come moltissimi altri hanno fatto, ed anzi ho un po’ il rimpianto di non aver più, da un certo punto in poi, seguito con la cura dovuta i suoi passi. Ha ottantadue anni. E’ sempre lui ma per certi aspetti comincia ad esserlo di meno, come tristemente e naturalmente succede quando si diventa vecchi.
Sono andato a vederlo a Trieste al Rossetti, che è un teatro molto grande ed era quasi tutto pieno di gente (più di un migliaio di persone, contando a spanne) che aveva pagato diverse decine di euri anche per i posti meno nobili, ed è stato molto bello e commovente ascoltare le canzoni e ringraziarlo di cuore per l’universo di cose cariche di sentimento che ci ha regalato. Anche se all'inizio sembrava un po’ perso e ha mancato qualche verso di canzone, anche se non è stato sempre al piano come altre volte ma si è messo a cantare in piedi con le braccia un po’ larghe che batteva a tempo sui fianchi con un’attitudine vagamente plantigrada, ha restituito a chi ascoltava il suo mondo. Uomini abbastanza perdenti, anche se spesso sostenuti da una specie di saggezza sbilenca, fondata su una sensibilità speciale e sulla conoscenza di qualche sottile e profondo quanto inefficace segreto della vita. Donne capaci di consonare misteriosamente con la natura delle cose e di distribuire in giro incanto e meraviglia, ma mai abbastanza da cancellare una – per quanto dolce - malinconia cosmica e a volte un dolore del quale però spesso si ride per non piangere. Con la musica e la poesia che, naturalmente redimono il possibile e illudono quanto basta, malgrado si sappia bene che alla vanità del mondo non c’è rimedio. 

Fin qui niente di nuovo. E tutto come sempre fonte di compassione e meraviglia: in fondo io penso che per vedere Paolo Conte varrebbe la pena di spendere qualche decina di euri anche se si trattasse di stare a guardare mentre gioca a tressette o schiaccia le patate per fare il puré. Ma stavolta con una nota di amarezza in più che poco alla volta si insinuava nell'anima mentre il concerto andava avanti. Perché Paolo Conte non sembrava così felice di essere lì a cantare e suonare: non si è mai rivolto al pubblico, non si è mai aperto, tra un brano e l’altro, in uno di quei mezzi discorsi, a volte un po’ ermetici e spesso - anche quelli - pieni di poesia e di spirito, con i quali di solito presentava le canzoni. Anzi, da quel pubblico ammirato lui sembrava come voler prendere le distanze, mettersi su di un piano diverso, considerare con degnazione e sufficienza (e quasi con un filo di disprezzo) tutta quella – appunto – ammirazione. Alla fine delle canzoni più famose il pubblico applaudiva a lungo e gridava. E lui in silenzio roteava la mano sopra la testa in un gesto che sembrava incitare ad insistere, ad applaudire di più e più a lungo, ma come se di quell'applauso non gliene fregasse niente, come se fosse privo di senso e valore, il gesto di una massa di persone preda della vanità e della moda, trascinate dalla situazione a dare pregio ad un bene insignificante, come se di quello che negli anni aveva scritto e che ancora cantava a lui stesso ormai non fregasse più niente. Quindi certo, bellissimo. Ma anche appena più triste di quanto mi aspettavo.
Che poi magari la mia impressione fosse sbagliata è ben possibile. Chissà quale motivo. E infatti chissà se c’era veramente quella specie di sfiducia e desolazione che da lontano mi è sembrato di leggergli nell'animo. Magari tutt'altro: ragioni contingenti, unghie incarnite, rogne fiscali o che. Però a me la tristezza un po’ è rimasta, ancora di più alla fine. Perché alla fine ha usato una versione lunghissima di “Diavolo rosso” per presentare l’orchestra, uno alla volta come si usa, e poi ha chiuso. Basta. Mille e passa persone ad applaudire aspettandosi il bis di norma, e invece niente, più una nota. Anzi: a un certo punto è uscito fuori lui solo, ma non a prendersi gli applausi, piuttosto invece a dire – senza parole – che bastava lì, che non ce n’era più.

Una faccia forse appena un filo imbarazzata (ma forse neanche quello) e con accennata sul muso un’espressione che poteva essere di sfida o sottile derisione. Come di chi ormai la vanità delle cose ce l’ha dentro e sa di non poter guarire più (a ottantadue, magari c’entra). Come di chi vede un branco di poveri illusi che si agita per un cerino acceso che non li potrà scaldare per un secondo, e da poveri illusi li tratta. Infatti ha fatto un gesto con la mano come a tagliare il collo, come fanno gli americani per dire che basta e che si smette, con una decisione che aveva dentro di suo una dose di crudezza. Poi è andato via e – applaudi applaudi pure – non si è fatto più vedere. E lì il sentimento della vanità delle cose è diventato davvero grande. 






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