Tra
le altre cose interessanti del giovane Kapuscinski polacco (1) c'è
la storia di un prof. di storia, giovane, attivo e pieno di buone
intenzioni, ma considerato dai suoi studenti un rudere.
E' un
suo compagno di facoltà che lui rivede per caso dopo aver incontrato
per strada un ragazzo che gli racconta di essere stato “segato”
in storia da un prof. impossibile “uno che non capisce la vita” e
che “ce l'ha con lui”. Allora si fa dire chi è il prof., il cui
nome è Stepik. Ma lui lo conosce bene, Stepik, così decide di fare
una breve deviazione verso la vicina città di Augustow per andare in
cerca del suo vecchio amico. Lasciamo parlare Kapuscinski.
[...P]rofessore
di liceo, tra lezioni, preparazione dei corsi e letture, Stepik è
perennemente occupato. Insegna quello che sa, fa tutto quello che
può, non si sottrae ai suoi doveri, è stimato dai superiori. Occupa
una stanza in subaffitto, mette da parte i soldi per comprarsi la
moto e d'estate visita gli scavi archeologici. Piccole cose che gli
piacciono e da cui trae le sue soddisfazioni private. Quello che
invece gli manca, è la soddisfazione professionale. Come insegnante
non riscuote successo. Anzi! Stepik è sempre sull'orlo di una
Waterloo pedagogica.
Mi
assicura che non è l'unico a essere andato a picco e che l'intero
corpo docente si è incagliato in un tragico punto morto. È
comprensibile: avanti negli anni com'è, il corpo docente fa sempre
più fatica a entrare in sintonia con i giovani. E tuttavia il corpo
docente affronta i giovani come una forza compatta, il che lo mette
in posizione di vantaggio. Gli attributi dei colleghi - i capelli
bianchi, l'esperienza, il fatto di avere loro stessi dei figli
iscritti all'università – sono anche la loro arma. Sono valori che
conferiscono un'aura d'autorità. I ragazzi finiscono sempre per
obbedire ai più anziani.
Ma
Stepik appartiene solo formalmente al corpo docente. Ha la sua
seggiola nella sala professori, i suoi turni di guardia nei corridoi,
il diritto di scrivere note sul diario di classe. Il consiglio dei
docenti lo tratta con la condiscendenza riservata a un collega più
giovane. A uno che sta un gradino più sotto, all'intruso di un'altra
generazione, al docente in rodaggio.
"Non
importa," dice Stepik, "non è questo che mi preoccupa. La
cosa grave è un'altra, e cioè che non riesco a trovare un
linguaggio comune con i ragazzi. Faccio meno fatica a intendermi con
gente di mezzo secolo più vecchia di me, che con un ragazzo di
cinque anni più giovane.
All'università
Stepik era un tipo di una vitalità incredibile. Attivista nato, era
sempre in mezzo ad assemblee, riunioni e sedute d'ogni genere. Il
sangue gli scorreva a cento all'ora. Non era capace di risparmiare le
forze, le dilapidava fino all'ultima bruciando le energie senza
tenerne da parte neanche un briciolo. [...]
Studiava
di notte, dormiva su una scrivania del direttivo studentesco,
ignorava che cosa fossero le vacanze [...]. Gli volevano tutti bene
per la sua sincerità, per la sua serietà, per quella sua
irrefrenabile, vibrante passione. Mangiava quello che capitava, si
vestiva come capitava e via subito a parlare, a spiegare, a suggerire
direttive, e sempre ai massimi livelli. I superiori lo mungevano come
una mucca da latte: fai anche questo, fai anche quest'altro. [...]
Si
caricava sulle spalle nuovi pesi, nuovi doveri e via, al galoppo,
nella sua eterna corsa, nel suo eterno mulinello, nella sua pazzia!
[...]
"Adesso
non sono più così," dice [...]. "Non ho più la
scintilla, lo slancio di una volta. Allora, invece... Ricordi quella
riunione in piena notte, come cominciammo l'azione, come tutto
sembrava andare a picco, come facemmo venire la gente, come
persuademmo quelli che non ci volevano stare, come... come... come?"
[...] Stepik rievoca, vede, risente ogni cosa sulla pelle: a quel
tempo ha dato troppo di sé perché tutto questo non permanga anche
oggi, persistente, schiacciante, insistente.
Un
rudere?
Quegli
anni l'hanno consumato: si è spompato, svuotato. Ha molto speso e
molto incamerato. Si è creato una riserva di conoscenze, di
esperienze, di sapere. Non ritroverà più l'energia necessaria per
ricominciare daccapo. Ha una professione stabile, un lavoro fisso, un
futuro prevedibile e poco brillante. Fa parte di un certo ambiente e,
non essendo privo di ambizione, desidererebbe occuparvi una posizione
più significativa. Vivendo, come fa, tra i giovani, ambirebbe a
trasmettere loro il proprio passato. A stupire, a significare
qualcosa, a sentirsi necessario. Gli piacerebbe continuare a
istruire, venire considerato un'autorità, dissetare gli assetati.
Si
sente giovane. Anzi, è la prima volta in vita sua che si sente
giovane. Negli anni precedenti era stato troppo serio: mai uno sfogo,
mai una mattana. Per questo adesso cerca un contatto con questi
ragazzi la cui gioventù, secondo lui, trascorre meravigliosamente
spensierata, senza svenamenti, senza crociate per salvare il mondo.
Ma
loro lo considerano un barbogio.
Non
sanno che farsene né di lui né della sua capacità di mobilitarsi
all'istante, di smuovere gli indifferenti e di trascinare la gente
con il proprio esempio. Anche se manifestassero un autentico
desiderio di esaminare tutto quello che Stepik ha in magazzino,
riuscirebbero forse a comprendere la natura, la funzione e la forma
degli oggetti in esso contenuti? Afferrerebbero il senso delle sue
spiegazioni? "Per mesi e mesi ho mangiato una sola volta al
giorno," racconta loro Stepik. "Ma perché," chiedono
quelli, più per noia che per interesse, "non aveva soldi?"
"No, il denaro ce l'avrei anche avuto, ma chi aveva il tempo di
occuparsi di certe cose?" spiega lui. "Ma come? Poteva
mangiare, e non lo faceva?" si meravigliano quelli.
Non
capiscono che cosa voglia. "Secondo me, lo fa per darsi delle
arie," pensano.
"Tutta
quella fatica per ricavarne che cosa?" mi ha chiesto il ragazzo
incontrato sulla strada. "Non si è neanche comprato il
televisore."
Il
ragionamento del ragazzo è corretto, non fa una grinza, non torna a
suo demerito. "Ho dato tot del mio e voglio tot in cambio":
è così che ragiona quel tipo sveglio. Tutti i suoi calcoli si
riducono a una questione di reddito, che a sua volta deve esprimersi
in categorie materiali, nella nomenclatura del numero. Che cosa può
mai rispondere, Stepik, a un ragionamento del genere? Nel migliore
dei casi, lo prendono per un presuntuoso. "Si vanta senza
motivo." Come dimostrare loro che si sbagliano?
Nessun
film né, tanto meno, nessun libro ha mai immortalato la storia della
generazione di Stepik. Non è mai stata raccontata. Anche se quel
ragazzo sulla strada avesse la passione del passato, anziché quella
del futuro, farebbe prima a conoscere la storia della generazione
[...] di Wokulski (2) che quella del suo professore di storia. Quelli
hanno trovato il loro cantore. Stepik, no.
Su
Wokulski, il ragazzo incontrato per strada scriverà un tema di sei
pagine, spiegando com' era. Di Stepik sa dire solo che è "un
rudere".
Nient'altro.
Eppure
si vedono tutti i giorni, chiacchierano, potrebbero porsi domande e
cercare risposte. Non lo fanno.
A
che pro?
"Ogni
tanto vado a Varsavia," dice Stepik. "Agli angoli delle
strade vedo gruppetti di giovani in attesa di qualcosa: ma di cosa?
Oppure li vedo salire sul tram, entrare in un cinema. Nel loro
atteggiamento, nel loro modo di fare c'è qualcosa che mi mette
paura. Preferisco evitarli. Mi sembra che se dicessi loro: 'Scusate',
non mi capirebbero. Facce che non riescono a esprimere un sentimento,
mani che non conoscono gesti di tenerezza. Come faccio a saperlo?
Così, un'impressione. Ho cercato di avvicinarmi ai miei allievi, ma
non ci riesco. Mi hanno chiesto se avevo letto Joe Alex (3). No, non
l'ho mai letto. Ho letto Rey (4), ma non Joe Alex. Gongolavano.
Certo: uno che conosce Rey, che cosa può saperne della vita moderna?
per sapere le cose necessarie e importanti al giorno d'oggi, non
occorre rompersi la testa su quello che è successo nel passato. 'Nel
passato' significa 'a partire da due anni fa'. Dico bene?" Che
ne sapevo, io, se aveva ragione? [...].
Una
prima cosa, a margine: mai, mai trattare con sufficienza un giovane
collega e mettersi nell'atteggiamento di chi non riconosce le
possibilità e il valore di qualcuno solo perché ha dieci o venti
anni di meno. Parti dal presupposto che c'è sicuramente in giro
qualcuno che oltre che più giovane è anche più bravo di te e che
se ci hai a che fare ti darà delle idee e ti aprirà gli occhi su
qualcosa a cui non avevi pensato (è successo, succede, essere
freschi di studio è una condizione felice e miracolosa, anche se,
appunto, spesso non basta a risolverti il lavoro...). Poi magari alla
fine, come in parte è naturale, salta fuori che è lui piuttosto ad
avere diverse cose da imparare da te. A quel punto cerchi di metterti
a disposizione senza supponenza, mantenendo bene il senso dei tuoi
limiti. So come ci si sente a essere trattati con sufficienza e ho
sempre cercato di evitare di farlo a mia volta. Spero di esserci
riuscito.
Ma
anche qui il punto principale su cui mi viene da riflettere è un
altro. Questo episodio forse non dimostra niente, tuttavia mi sembra
un altro esempio del fatto che la diffidenza e la distanza che si
crea tra te e gli studenti quando insegni è strutturale,
antropologica, non più di tanto legata a tempi e luoghi. E magari
vuol dire che, tutto considerato, forse è davvero quasi impossibile
realizzare il mio obiettivo-sogno, cioè la possibilità che una
società intelligente cambi la mentalità di ragazzi e famiglie fino
a far diventare naturale un rapporto di sostanziale fiducia e
collaborazione con la scuola.
Quello
che succedeva a Stepik nella Polonia di fine anni '50 - primi '60
succede ancora continuamente. Quando tu arrivi in classe e lavori,
loro hanno una gran voglia di avvicinarti, di trovare una dimensione
di rapporto che permetta familiarità e magari amicizia, ma tentano
di ridurre la distanza, sempre (o quasi) restando sul loro terreno,
che è quello della vita quotidiana, delle esperienze elementari, dei
bisogni e dei gusti, e mai (o quasi) venendo sul tuo, che è quello
della formazione, dello scambio intellettuale, dell’esplorazione
culturale. Una punta di enfasi in queste parole? Forse sì, ma anche
fosse? Per quanto ne so mi pare che al mondo esistano posti in cui si
sa che l’avventura intellettuale è una vera e grande
avventura, una fonte di emozione continua e potente. Posti non tanto
e solo in senso geografico e cronologico, quanto nel senso
dell’ambiente, dell’atmosfera. Tendo a pensare che questi posti
siano molto più diffusi all’estero che qui da noi, ma non è poi
così importante. A sentire Kapuscinski la Polonia comunista di
quegli anni non era esattamente uno di questi posti, ma lo è assai
poco anche l'operoso nordest del presente. A scanso di equivoci
preciso che certo, questi due “posti” forse sono un po'
assimilabili per questo aspetto di breve respiro, ma sicuramente non
lo sono per molti altri.
Comunque,
questa io tendo a pensarla come un'altra conferma, indiretta, del
fatto che non si fidano, ma anche come l'indicazione chiara
che sul primo piano, quello della confidenza personale, la distanza
non va colmata, o perlomeno lo si può fare legittimamente in
qualche misura solo dopo aver ridotto significativamente la
distanza sul secondo, quello dello scambio intellettuale. Mi pare
rischioso (anche se non escludo che a volte possa funzionare)
concedere qualcosa sul piano del rapporto personale prima che si sia
stabilita un'intesa chiara. Non tanto sul fatto che tu comandi e loro
obbediscono (questo è scontato ma non va fatto pesare) quanto sul
fatto che quello che si deve fare insieme, l'uno con gli altri e
viceversa, è studiare. Leggere pensare vedere visitare discutere
eccetera. Ma in sostanza studiare: questa è la prima cosa e di qui
non se ne esce e non se ne deve uscire. Solo così è possibile che
poi, quando la vita li cambia, presto o tardi che sia, ripeschino
pezzi anche importanti del lavoro che si è fatto insieme e se ne
facciano veramente qualcosa. Teresa mi dice che lei quando li rivede
non li trova cambiati. Forse qualche volta la trasformazione non
succede, ma a me pare raro: sono pochi quelli che ho rivisto e a cui
avrei detto volentieri: “Sei ancora lo stesso piccolo testa di
cazzo di quella volta”. Nella mia esperienza basta aspettare tempo
e cose abbastanza. Ma magari mi sbaglio.
L'unica
cosa che potrei dire a Stepik è questa: che il dubbio che mi viene è
che lui davvero un po' non capisca la vita. Il sospetto mi viene
sentendo che non ha letto Joe Alex. Magari anche qui mi sbaglio, però
per esperienza so che i fioi se tu non sai niente della vita
se ne rendono conto e questo ti fa perdere un sacco di punti. Su
questo sono sensibili come degli animali. Allora, nei panni di Stepik, io un tentativo serio di leggere
Joe Alex lo farei.
(1)
Il riferimento qui è a Ryszard Kapuscinski, Giungla
polacca, Feltrinelli 2009 (il tascabile costa 9 €), da
cui è tratto il brano riportato, p. 105-11 con tagli. E' una delle
cose pubblicate tardi, dopo che Kapuscinski è morto e evidentemente
l'editoria ha un po' raschiato il fondo del barile. Certo non la sua
cosa migliore (rispetto ai grandissimi Ebano, Shah-in-shah,
Imperium e La prima guerra del Football), ma comunque interessante. Per sapere un po' com'era il Kapuscinski
giovane (lo ha pubblicato a 30 anni nel '62) e le cose che diceva,
certo, anche per questo. Ma l'aspetto che resta di più è vedere
come viveva e pensava un giovane giornalista con un retroterra di
studi storici nella Polonia comunista del secondo dopoguerra, che
spazi di pensiero pensava di potersi permettere, che cosa gli
chiedevano di fare e con quali condizionamenti visibili o impliciti.
Su questo punto direi che leggere questo libro mi ha confermato come
sia sostanzialmente legittimo il paragone che uso spesso a scuola,
tra il ventennio fascista in Italia e il comunismo dell'Europa
orientale nell'epoca del patto di Varsavia, in termini di libertà
e/o condizionamento della società e degli intellettuali. Articolare
l'affermazione richiederebbe un po' di spazio, ma per ora la butto
là...
(2)
Protagonista del romanzo La bambola di Boleslaw Prus
(1847-1912). [n.d.A.]
(3)
Pseudonimo di Maciej Slomczyriski (1922-1998), anglista e traduttore
di scrittori classici, diventato popolare come autore di romanzi
polizieschi. [n.d.A.]
(4) Mikolaj
Rey, oggi scritto Rej (1505-1569), poeta, prosatore e traduttore,
considerato il padre della letteratura polacca. [n.d.A.]
No, non è che non cambiano, è che sotto sotto c'è qualcosa che rimane uguale. C'era qualcuno che aveva parlato di una cosa del genere, uhm, Aristotele? Mia zia Piera?
RispondiEliminaNon so chi è (era) il più saggio tra i due, ma è chiaro che "diventare" non è una questione di carattere (ma forse non è quello che intendi parlando di "qualcosa che rimane uguale", e allora forse non ho capito). Poi comunque si pone la questione di capire se e quando uno veramente "diventa", ma questo apre praterie sconfinate e perigliose.
Elimina"Ci sono molti modi" direbbero gli Afterhours, parlando dell'analogia dell'essere.
RispondiEliminaEh, ma come faccio a sapere che modi intendi...
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