Ultima
ora dell’ultimo giorno di scuola. Ultima interrogazione di recupero in storia. Una
di quelle cose che fai e che pensi sempre che non dovresti fare. Che fai perché
è fine anno e per l’ultima parte del programma non hai avuto modo di dare tutte
le occasioni possibili per recuperare a quelli che sono in difficoltà.
Pur sapendo
che alcuni sono in difficoltà perché non hanno ancora capito come si studia, ma
altri sono in difficoltà perché hanno “deciso”, in vari modi, di non studiare (altra
faccenda importantissima e vitale di cui mette conto ragionare… ). Pur sapendo
che qualche collega ti ricorda a volte (con qualche ragione senza dubbio…) che
anche alle occasioni per recuperare c’è un limite e che non è detto che abbia
senso interrogare uno/una fino a quattro-cinque-sei volte sulla stessa parte di
programma.
Comunque
alla fine lo fai, anche se ringrazi di cuore quegli studenti che non ti
costringono a farlo e se la cavano bene o onestamente al primo o al massimo al
secondo colpo. E anche se pensi che uno studente dovrebbe fare in modo da solo
di non mettersi in condizione di pietire l’ultima interrogazione l’ultimo
giorno, e piuttosto dovrebbe fare due conti in tempo e prepararsi decentemente
un po’ prima. Lo fai e ti trovi lì questi che hanno provato (lo speri tanto…) a
mettere insieme qualche nozione e produrre qualcosa di accettabile. A questo
punto due cose.
Prima
cosa: dopo pochi minuti entra la collega T. e mi chiede se può portarsi fuori
lo studente B. per l’ultima interrogazione di recupero in un’altra materia. Le
spiego con una punta di stupore che lo studente B. è tra quelli che anch’io sto
interrogando. Tutti e due guardiamo lo studente B. con uno stupore che è
decisamente più di una punta e ci mettiamo un po’ a ridacchiare, pensando che
questo si è tirato dietro dei guai fino all’ultimo minuto non solo in una
materia. Preciso che in nessuno dei due casi si tratta di una di quelle “interrogazioni
globali totali su tutto il programma dell’anno” con cui lo studente ignavo
spera di salvare tutta un’annata di risultati scarsi grazie a un solo misero
sei finale. Quelle cose non esistono
e io non le faccio e, mi risulta, neanche T. In entrambi i casi è un
recupero su una parte di programma limitata dopo che, durante l’anno, sulle altre
parti del programma, tutte o quasi, gli studenti in questione sono riusciti
almeno a strappare il sei… Allora T., sempre ridacchiando, guarda un po’ in
giro e si rivolge agli studenti chiedendo pressappoco a cosa serve venire a
scuola per duecento giorni visto che in fin dei conti basta l’ultimo per fare
tutto il necessario. T. come sempre valuta le cose, oltre che con spirito,
anche con grande esperienza e equilibrio. Ridacchiano tutti, anche alcuni di
quelli che sto sottoponendo all’estrema tortura: gli studenti sanno benissimo
come vanno le cose e sanno quando sono loro a essere in malafede. Poi a volte
si sentono giustificati, a torto, dalla malafede di alcuni prof., ma il
ragionamento è naturalmente sbagliato e non vale neanche se tu hai 16-17-18
anni: il tuo errore volontario non diventa legittimo perché è la risposta a un
errore volontario altrui, vecchia storia ma sempre giusta. L’unica attenuante
vera, ma in un altro senso, generico e universale, è proprio il fatto che hanno
16-17-18 anni e c’è un margine di rispetto che meritano comunque. Ma basta: a
quell’altezza hanno già un sacco di responsabilità.
Seconda
cosa: a un certo punto nell’interrogazione dello studente Z. si arriva a Plombiéres,
tappa canonica, abbastanza giustamente. Dunque canonicamente chiediamo i
contenuti dell’accordo. Z. comincia: “Il Piemonte cede alla Francia…” Lo
interrompo chiedendogli di cominciare dall’aspetto fondamentale, dalla sostanza
dell’accordo: che il Piemonte ceda qualcosa alla Francia è la conseguenza del
fatto che Piemonte e Francia decidono di fare una cosa assieme, dunque partiamo
da questa cosa (è la faccenda del gorilla). Perplessità di Z. che
ricomincia: “Il Piemonte cede alla Francia…”. Allora lo fermo di nuovo e si
sente che comincio a non capire perché diavolo non capisce. Vedo che è un po’
in affanno, ma come fai a non ragionare un minimo? Gli rispiego cosa non va in
tono un po’ più perentorio, lo lascio respirare e finalmente prosegue: “Il
Piemonte e la Francia vanno contro l’Austria…” Lo lascio proseguire e intanto
penso: “Come “vanno contro l’Austria”? perché non riesci a dirmi: “stabiliscono
un’alleanza militare”, oppure “si accordano per preparare una guerra contro l’Austria”,
o qualcos’altro del genere? Sarà mica difficile? Perché non ci riesce? Qui sta
il difficile, capire perché e cosa fare. Ma non ci si può accontentare di prove
come questa. E chi dice che non si tratta di cose importanti non capisce
niente: devi prepararti su questo e lo sai, sei tenuto a farlo meglio che puoi.
Poi si discute su cosa va studiato. E in ogni caso l’importante è ovviamente
ragionare su problemi, il che è quello che si fa in questo modo.
Ciao, la difficoltà di questo studente mi ricorda un libro fantastico di sociologia/antropologia/pedagogia, che forse conosci già (molti insegnanti lo conoscono): http://www.anobii.com/books/Arte_di_ascoltare_e_mondi_possibili/9788842490210/0150ebdce4c774e649/
RispondiEliminaIn particolare il capitolo in cui parla della teoria di Bernstein su codici ristretti e codici allargati. Ti racconterò!
Molto volentieri. Intanto dal link che mi hai mandato ho ricavato le sette regole che sono in sè interessanti e credo condivisibili. Il problema è il rapporto tra tempo disponibile e obiettivi, mi sembra: mi viene spesso da pensare che se ci fosse tempo abbastanza tutti i problemi didattici si potrebbero risolvere. Ma mi spiegherai. Grazie per la segnalazione: io non conoscevo questo libro e mi risulta che moltissimi insegnanti NON lo conoscano...
RispondiEliminaHo visto un po' quello che ho trovato in rete: in fondo, a leggere rapidamente, mi pare un'evoluzione colta e sperimentata della vecchia intuizione di Don Milani. Con la differenza fondamentale che oggi, e qui da noi in particolare, il gap non è legato solo alle condizioni materiali di vita, ma anche molto al costume e alle dinamiche familiari. Intanto la settima regola mi conforta un po', col tempo mi pare che l'attitudine "umoristica" si consolidi. Ma è sempre difficile possedere sicurezze sul proprio modo di insegnare...
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