Sia
ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla
vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer
più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un
mostro, che secondo natura uomo. (segue...)
(Leopardi, Operette Morali, Dialogo di Plotino e Porfirio)
E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In
ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti
e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo
infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non
sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu
sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né
di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo
curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di
appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria
ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a
compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la
memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia
cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli
amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho
persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci
a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi, metterci
in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non
ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei
mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un
l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della
vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte
verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli
amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero
che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci
ameranno ancora.
Unum argumentum... (N.d.B.)
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