Ci
sono studenti che a 17-18 anni ne hanno 35.
Non
solo nel senso banale e deteriore che credono di sapere tutto e
guardano con sufficienza te che insegni e ti trattano con degnazione
se non con disprezzo, considerandoti evidentemente un rudere. Questa
è una malattia adolescenziale diffusa che spesso prende come oggetto
polemico anche i genitori, anzi, i genitori più che gli insegnanti,
e che non è poi molto interessante, anche se fa parte della sfida e
della lotta che normalmente gli studenti-figli ci propongono e che va
affrontata a viso aperto e con lealtà, non disconoscendo il proprio
lato vecchio e dandosi da fare perché sia il meno esteso
possibile: quando ti trattano da rudere una qualche ragione possono
avercela e bisogna reagire con equilibrio.
Ma non è a questo che penso: mi riferisco a quei pochi che 35 anni li hanno davvero.
Ok, 35 sono tanti. Ma ci sono ragazzi che al triennio delle superiori possiedono davvero e dimostrano sostanzialmente una personalità e un senso della realtà notevoli. D'accordo, loro credono di avere 35 anni e non li hanno. Ma ne hanno davvero parecchi più dei loro compagni, alcuni dei quali a volte sono ancora avvoltolati in una coperta di infantilismo che il nostro scintillante e spietato mondo di cartoni e giochini, ma anche la loro famiglia, ma anche il loro stesso ritmo di sviluppo, hanno contribuito a creare e a piazzare attorno a loro.
Ma non è a questo che penso: mi riferisco a quei pochi che 35 anni li hanno davvero.
Ok, 35 sono tanti. Ma ci sono ragazzi che al triennio delle superiori possiedono davvero e dimostrano sostanzialmente una personalità e un senso della realtà notevoli. D'accordo, loro credono di avere 35 anni e non li hanno. Ma ne hanno davvero parecchi più dei loro compagni, alcuni dei quali a volte sono ancora avvoltolati in una coperta di infantilismo che il nostro scintillante e spietato mondo di cartoni e giochini, ma anche la loro famiglia, ma anche il loro stesso ritmo di sviluppo, hanno contribuito a creare e a piazzare attorno a loro.
Insomma,
certi ragazzi sono quasi adulti. Non quanto vorrebbero e tentano di
essere, ma in sostanza lo sono sul serio, almeno in parte. Ad esempio
per la loro capacità di calcolare in modo efficace le direzioni in
cui investire le proprie energie, nel bene e nel male. E di
concentrare queste energie facendole convergere verso quello che
vogliono, come quando vanno a lavorare e reggono bene impegni duri e
prolungati per procurarsi i soldi che servono a comprare qualcosa di
vitale (per loro), o ad andare in giro a fare cose e vedere gente. O
ancora, altro esempio, collaterale, per come sono capaci di stabilire
con gli altri relazioni adulte e mature, di assumersi, in famiglia o
in altri ambienti, nei confronti degli altri o di sé, grosse
responsabilità reali.
Come
si diventa così, come si diventa grandi così presto? Non lo so,
ovviamente. In qualche caso si capisce subito che ci sono dietro e
sotto vicende familiari complicate e dolorose che costringono a
tenere botta di fronte a impegni veramente pesanti e difficili. Ma
non tutti reagiscono così: ci sono quelli che di fronte a disgrazie
o problemi familiari smettono di crescere e si paralizzano o
rifiutano di vedere e di adattarsi, accettando di obbedire e di
rinunciare a una parte di sé, ma senza prendere coscienza del
problema, senza capire. E poi ci sono casi di maturazione precoce in
situazioni del tutto tranquille, in cui sembrano essere proprio gli
equilibri familiari (e magari la condizione economica e le
possibilità che essa offre...), a permettere sicurezza e coraggio.
Non so da cosa dipende, ci sono casi molto differenti tra loro,
bisognerebbe vedere. Ma posso considerare due esempi: uno qui,
l'altro un'altra volta.
Il
primo è quello di L.P., ragazza intelligente, bella e piena di
carattere, capace di ottenere risultati brillanti quasi dappertutto e
di dedicare alla musica una parte molto importante, per tempo e
energie, della propria vita. Ma anche estremamente autonoma,
ambiziosa, piena di interessi e apparentemente sempre in condizione
di amministrarsi, di decidere per sé in modo responsabile, di
affrontare senza troppa paura o incertezza le conseguenze delle
proprie azioni. Curata, truccata, elegante, con uno stile (credo)
piuttosto fine nel vestire, fatto in genere di variazioni (sfumature
e mezzi toni) sullo stesso colore. Capace di esprimersi con
precisione e di affrontare situazioni problematiche in modo diretto e
deciso ma insieme corretto e rispettoso, quindi spesso delegata ad
assumersi compiti di rappresentanza eccetera, cosa che faceva di buon
grado ma senza dare l'impressione di voler diventare popolare per
questo o di farne per sé un'occasione di crescita “civile”:
semplicemente sapeva che accettare di prendersi lei quegli impegni
era la cosa più semplice per risolvere i problemi. Con compagni e
compagne aveva un atteggiamento solo leggermente supponente: nessun
disprezzo e nessuna superiorità ostentata, solo la presa d'atto di
una differenza di condizione talmente evidente da essere riconosciuta
da tutti, come dieci centimetri di statura in più. E dall'altra
parte, i compagni, pochissima ostilità preconcetta e invidia, anzi,
piuttosto una punta di ammirazione. Ma anche un'estraneità di fondo,
come, appunto, quella che si prova da ragazzi nei confronti di chi è
più grande e vive pensando a cose diverse, lontane e complicate.
Ogni
tanto mi dava un po' fastidio il fatto che pensasse di potersi
permettere tutto quello che lei riteneva giusto e sensato: a
volte entravi in classe e ti toccava aspettare che lei finisse
i suoi discorsi con le compagne per poter cominciare la lezione,
perché lei di suo non si preoccupava certo di chiudere lì e
andare a posto appena entravi, quindi capitava che lei
decidesse di sedersi e prestarti attenzione solo due-tre minuti dopo
che tu eri entrato e ti eri seduto a tirare fuori i libri e firmare
il registro, minuti in cui restava tranquilla in piedi di schiena a
puntualizzare bene le conclusioni del suo discorso. O anche il modo
in cui, quando faceva delle osservazioni su qualche decisione da
prendere, la metteva giù col tono di chi pensa che quello che sta
dicendo è l'unica cosa ovvia da fare e che se qualcuno non se ne
rende conto è uno che non capisce niente. In realtà poi le sue
osservazioni erano sensate, quasi sempre. Ma qui un po'
supponente lo era: a volte era un po' come avere in classe Bette
Davis e ogni tanto un po' di sarcasmo, ma senza cattiveria, me lo tirava fuori. Ma nell'insieme non è che di studenti bravi e svegli come lei
ce ne fossero (ce ne siano) molti. Dava l'impressione di conoscersi
bene, aveva interessi precisi e li coltivava seriamente e con
continuità, aveva le idee abbastanza chiare sul proprio futuro e la
sua passione per la musica era certamente autentica, anche se a volte
sembrava che in qualche misura la usasse per costruire
l'immagine di sé a cui, evidentemente, teneva tanto. E' probabile
che come donna potesse già risultare seriamente interessante per
uomini molto più grandi di lei: quella volta che mi buttò lì che
durante le vacanze di Natale (o Pasqua) era stata via col moroso a
Berlino (o Barcellona o che), non ne fui stupito: lo faceva certo un
po' anche per impressionarmi (o forse addirittura solo sapendo
di impressionarmi), ma non vendeva fumo, lei era già così. Mi
vedevo la discussione in famiglia su questi viaggi all'estero con un
fidanzato (mi dissero, mi pare...) più che trentenne, e mi vedevo lei che
pacatamente convinceva senza scampo due genitori che sapevo per
niente sprovveduti, dando loro la sicurezza quasi completa che era in
grado di gestire la situazione e che era pronta per impegni e
situazioni di quel tipo. Non un carattere semplice, certo, ma anche
una donna che dobbiamo essere contenti di sapere vitale e attiva,
dalle nostre parti o altrove.
Da
un po' non ho notizie precise di lei. Dovrei potermele procurare,
volendo, con facilità. Quel po' che so del suo percorso successivo
racconta di un diploma di Conservatorio ottenuto con una votazione
alta e, all'Università, di un percorso prevedibilmente
soddisfacente, nella direzione che aveva in mente da sempre. Non ho
motivo per pensare né, ovviamente, mi auguro, che le cose siano
andate o andranno diversamente. L.P. si merita tutta la riuscita e le
soddisfazioni che ha avuto e che avrà. Meglio per lei, che potrà
fare ottime cose, per chi le è vicino e per chi potrà aver bisogno
del suo lavoro. Ma se penso a lei l'immagine che mi viene in mente è
un'altra: tornando da scuola un giorno l'ho incrociata che andava
verso casa sua, a piedi, dalla stazione delle corriere. Borsa
pesante, cappotto corto alla moda, passo svelto malgrado i tacchi
alti, capelli un po' scomposti, espressione che tradiva più di
sempre la fatica di essere così, di voler dover essere sempre quasi
perfetta. Ma anche la fatica di non lasciar vedere la fatica, di
mostrare sempre disinvoltura, di non chiedere mai aiuto e di
affrontare tutte le sfide con sicurezza, senza confessare debolezze.
“Dio, – ho pensato – questa prima o poi potrebbe esplodere...”.
E poi: “Speriamo che non succeda”, ho pensato. E non è detto che
succeda: le auguro di tener duro, può farcela di sicuro, è
probabile che ce la farà. E le auguro che quello che vuole le basti,
le auguro di essere felice.
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