Aveva
fin gli occhi spioventi. Tristezza silenziosa, tenace e profonda.
Grande scrupolo, pagine e pagine di appunti, fatica a capire tutto
quello che richiedeva un po' di familiarità con quel mondo da cui
veniva accuratamente tenuta separata, protetta. Richiesta tacita di
avere cose semplici da studiare e ripetere senza troppi enigmi, il
che non è inusuale ma ovviamente è impossibile. Nel caso di L.Z.
poi non c'era neanche quel punto di recriminazione contro la
difficoltà delle cose (o contro di te che le rendi complicate quando
potrebbero essere semplici) che c'è in tanti sguardi provenienti da
anime che almeno un po' di sicurezza di sé ce l'hanno dentro.
Di
solito, quando di qualcuno dici che è un'anima in pena, sottintendi
che c'è una spina, un chiodo, qualcosa che tormenta e non si risolve
ma che potrebbe, almeno potrebbe essere tolto. La sua invece pareva
una cosa cronica, un male a cui non si può se non rassegnarsi, e
contro il quale non aveva senso cercare di reagire. Non le avrebbe
impedito di sopravvivere, questo dicevano il suo corpo magro magro e
la sua camminata lenta e passiva: era un male con cui si poteva
convivere ma che ti avrebbe sempre e per sempre tolto la speranza.
E'
solo uno dei tanti casi in cui vedi in classe uno o una che hanno
qualcosa e ti chiedi cosa. Lo/la tieni d'occhio con una certa
costanza e cerchi di andarci piano, pur senza fare sconti.
Naturalmente non ci arrivi, ti mancano gli elementi, ti rendi conto
che è una cosa che viene da un al di là rispetto a quello che tu
puoi vedere tutti i giorni. Poi, dopo qualche mese, alla prima
occasione di incontro, vedi il genitore (o la genitrice). E allora
capisci subito e pensi subito che, povero/a, è anche troppo bravo/a
a essere quello che è. Anche del genitore-macigno esistono diverse
varianti, nell'analisi delle quali non entriamo. Comunque tu ne
avverti subito il peso e li compatisci tutti e due: il genitore
inconsapevolmente (e non sempre incolpevolmente) artefice della
demolizione e il figlio che si puntella come può per evitare di
crollare. Anche lì la densità della sofferenza che senti traspirare
è molto alta.
Nel
caso di L.Z., per fortuna, un po' alla volta il lavoro regolare e un
po' cieco che faceva le ha permesso di prendere familiarità con le
parole, di avere presenti almeno in astratto i termini delle
questioni e nell'insieme di portare a casa voti sufficienti e a volte
discreti. Un po' alla volta ha cominciato a fare qualche sorriso
timido e incerto, ad apparire più sollevata, anche se fino alla fine
ha continuato a non partecipare a quello che succedeva, sempre
solitaria, pelle chiara chiara e capelli neri neri, sempre legata a un preciso altrove, che monopolizzava le sue emozioni, più che non
presente a se stessa e a noi che le stavamo intorno. Negli ultimi
mesi forse aveva cominciato a concepire l'esistenza del mondo
esterno, a pensare almeno per ipotesi che la sua vita le potesse
appartenere sul serio. Non credo avesse ancora una forza sufficiente
a sopravvivere da sola, lontano da casa, in un posto tipo università,
ma anche di lei, naturalmente, spero che abbia attraversato le sue
giungle: se è riuscita a tenersi nascosta al flusso delle cose per
un tempo lungo abbastanza da permetterle di fare qualche esperienza e
prendere fiducia un po' alla volta, potrebbe avercela fatta. Anche
per lei ci sarebbe da dire ogni tanto qualcosa come una preghiera, ma
non la vedo mai e non me ne ricordo. Almeno l'ho fatto questa volta,
visto che, chissà perché, mi è tornata in mente...
Almeno ha avuto un prof che si è preoccupato.
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