Mio papà assomigliava vagamente a
Domenico Modugno ma diceva che casomai era Modugno ad assomigliare a
lui, perchè era più giovane. Ci sono delle foto in cui la
somiglianza si vede un po', ma in quella che ho qui c'è proprio solo
un'idea, giusto i baffi, giusto le foto più vecchie in cui Modugno
era giovane e mantiene l'aria anni '60 che è l'ultima che mio papà
ha avuto, visto che si è ammalato alla fine di quel decennio, verso
il '68, mi pare, e non c'è più dal '71.
Per il poco che ricordo e
per quello che mi dicono era un uomo semplice e paziente (anche se non proprio adattabile),
straordinariamente scrupoloso e buono. Ma non è delle sue qualità
migliori che pensavo di parlare qui. Quello lo potrei fare un'altra
volta, con un po' di ordine, raccogliendo quello che la memoria e i
racconti degli altri mi permetteranno di mettere insieme. Qui volevo
fermarmi un momento su un'altra caratteristica, forse meno bella ma
su cui spesso mi è capitato di farmi delle domande.
Specialmente da quando ha scoperto di
star male e ha capito, lui che era dottore, che era un male rognoso,
un difetto a una valvola cardiaca che a quel tempo non si risolveva
facilmente come oggi, mio papà ha avuto, mi dicono, dei momenti di
cupezza, probabilmente di disperazione. Qualcuno mi ha raccontato che
a volte si chiudeva da qualche parte al buio e stava lì per un po'
senza fare niente e senza voler vedere nessuno, come a covarsi quel
dolore, quella preoccupazione piena di spine. Io non vedevo: ero
piccolo e mi tenevano sicuramente al riparo, così non ho ricordi
precisi e non posso, neanche a posteriori, farmi direttamente un'idea
di come andavano le cose. Tra i milioni di rimpianti che ovviamente
mi sono sentito dentro, e certamente non tra i più pesanti, c'è
anche questo di non aver potuto mai sapere e capire e provare a fare
qualcosa, a stargli vicino, a essere in qualche modo una
consolazione.
Una storia che ho letto molto tempo
dopo, quando avevo più o meno diciott'anni (1), racconta di una
donna giovane, di neanche trent'anni, disperata per aver perso
improvvisamente il marito che amava moltissimo e per essere rimasta
sola con i tre figli, il più grande di quali ha solo sette anni.
Dopo la morte del padre questo bambino dorme con la madre e per un
lungo periodo resta tutte le notti sveglio accanto a lei a sentirla
piangere, a condividere la sua angoscia. Lei è naturalmente quanto
di più importante gli resta, e lui sente confusamente (e teme) che
lei non abbia la forza di continuare a vivere. Così sta con lei e
veglia e le sta vicino, si aggrappa a lei per trattenerla, quasi
fisicamente. Dice, riferendosi alle serate passate con lei prima di quelle notti tormentose: “In quelle ore ho imparato il silenzio in cui si
raccolgono le forze dello spirito”. Leggere queste pagine, quella volta, mi ha
fatto un'impressione che è ritornata riprendendole adesso. Un bambino di sette anni
capace di capire e di trovarsi dentro la forza di essere presente. Ho
pensato che questa capacità era indispensabile, che essere uomini
voleva dire questo forse prima di qualsiasi altra cosa. In quegli
anni mi sono reso conto di quanto fosse difficile impararla e farne
il materiale con cui ci si lega alle persone. Ci vuole impegno,
attenzione e pazienza. E non ci sono sicurezze, come è naturale
quando si ha a che fare con i sentimenti.
Ovviamente non presumo di detenerne il
possesso: mi vengono subito in mente alcune delle volte in cui non ne
sono stato capace, di quelle, almeno, di cui mi sono accorto. Ma so
che tante altre volte ho cercato di stare attento. E' un lavoro da
speleologi, rischioso e pieno di tensione, in cui basta mettere una
mano o un piede in falso per scivolare e farsi male o far male a chi
sta con te. La disperazione ti rende quasi impossibile. E insieme ti
fa desiderare che qualcuno trovi una possibilità in qualche modo.
Sai che forse uno spiraglio non c'è, ma sai anche che il mondo ha
tutte le colpe se non le prova tutte per trovarlo. Stai chiuso al
buio e non vuoi niente e nessuno, ma guardi continuamente intorno per
vedere se si fa avanti piano il chiaro della lampadina che qualche
coraggioso esploratore porta sul caschetto. E' vero che in genere
succede il miracolo per cui le forze che sono andate via poi tornano.
Ma è anche vero che poi, nei giorni in cui esci e lavori e parli,
non è che smetti di sapere, non hai dimenticato che esiste un brutto
posto dove presto o tardi ti capiterà di tornare. E la sola cosa che
veramente ti solleva è se sai che c'è qualcuno che è in grado (se
in quel momento ne avrà la forza, se vuole) di venirti a prendere
anche lì. Perfino il tuo dolore potrà apparire poi meraviglioso.
Forse: se ti è andata bene, se qualcuno ti ha cercato e ti è
arrivato vicino. Abbastanza vicino. E se no?
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