Una volta ho
fatto un corso per allenatori di minirugby. Una cosa minima, una
giornata o due: ero presente un po' per fare numero, ma anche per
avere un'idea di come si affronta il compito di dare in mano la palla
ovale a un gruppo di piccolini.
Poi non me ne sono fatto niente, anche se spero prima o poi di avere modo di provare a seguire una squadra, magari affiancato a qualche allenatore un po' più esperto, uno che ha giocato e di rugby ne sa. A volte fanno così i papà di qualche piccolo giocatore, che all'inizio non ne sanno molto ma in qualche mese imparano abbastanza da poter preparare un po' i bambini (ragazzini) e accompagnarli al torneo. Ricordo che il mantra dell'istruttore federale che ci teneva il corso era: “Avanzare, sostenere, avanzare ancora”. La parola chiave è la seconda: il sostegno, il vero fondamento della logica del rugby. Che vuol dire che da solo non vai da nessuna parte, che l'uomo che porta la palla deve essere il più avanzato della sua squadra e affrontare per primo l'urto contro gli avversari, ma dietro ci devono essere gli altri, che nel momento in cui il compagno viene placcato devono arrivare il più presto possibile e portarlo comunque avanti. Oppure, se il giocatore placcato va a terra, devono difendere la palla spingendo indietro gli avversari e mettendo l'ovale a disposizione dei compagni. Perchè quando si forma un raggruppamento (ruck), quando sul punto del placcaggio arrivano giocatori di entrambe le squadre, è vietatissimo raccogliere la palla dal mezzo della mischia aperta: bisogna spingere indietro gli avversari abbastanza da portare la palla dietro le proprie gambe fino a che arriva qualcun altro a raccoglierla per ripartire in avanti o per passarla, naturalmente all'indietro. Questo è il sostegno, la ragione per cui chi gioca a rugby sa che non solo il successo dell'azione, ma anche la possibilità di rimanere interi dipende dai compagni e da quanto prontamente arrivano. E, reciprocamente, il fatto che i compagni restino interi dipende da quanto rapidamente arrivi tu. Chi gioca dice che è soprattutto questo che fa del rugby una cosa speciale e permette a questo sport di produrre legami di tenacia e durata, pare, davvero ineguagliabili, al di là dell'enfasi e del mito.
Poi non me ne sono fatto niente, anche se spero prima o poi di avere modo di provare a seguire una squadra, magari affiancato a qualche allenatore un po' più esperto, uno che ha giocato e di rugby ne sa. A volte fanno così i papà di qualche piccolo giocatore, che all'inizio non ne sanno molto ma in qualche mese imparano abbastanza da poter preparare un po' i bambini (ragazzini) e accompagnarli al torneo. Ricordo che il mantra dell'istruttore federale che ci teneva il corso era: “Avanzare, sostenere, avanzare ancora”. La parola chiave è la seconda: il sostegno, il vero fondamento della logica del rugby. Che vuol dire che da solo non vai da nessuna parte, che l'uomo che porta la palla deve essere il più avanzato della sua squadra e affrontare per primo l'urto contro gli avversari, ma dietro ci devono essere gli altri, che nel momento in cui il compagno viene placcato devono arrivare il più presto possibile e portarlo comunque avanti. Oppure, se il giocatore placcato va a terra, devono difendere la palla spingendo indietro gli avversari e mettendo l'ovale a disposizione dei compagni. Perchè quando si forma un raggruppamento (ruck), quando sul punto del placcaggio arrivano giocatori di entrambe le squadre, è vietatissimo raccogliere la palla dal mezzo della mischia aperta: bisogna spingere indietro gli avversari abbastanza da portare la palla dietro le proprie gambe fino a che arriva qualcun altro a raccoglierla per ripartire in avanti o per passarla, naturalmente all'indietro. Questo è il sostegno, la ragione per cui chi gioca a rugby sa che non solo il successo dell'azione, ma anche la possibilità di rimanere interi dipende dai compagni e da quanto prontamente arrivano. E, reciprocamente, il fatto che i compagni restino interi dipende da quanto rapidamente arrivi tu. Chi gioca dice che è soprattutto questo che fa del rugby una cosa speciale e permette a questo sport di produrre legami di tenacia e durata, pare, davvero ineguagliabili, al di là dell'enfasi e del mito.
L'identità
del termine è di sicuro casuale ma, se ci si pensa, forse sotto
sotto una ragione c'è. Oggi quelli che a scuola fanno sostegno –
gli insegnanti di sostegno – quando li vedi lavorare spesso
ti fanno venire in mente proprio questa cosa: che da solo non vai da
nessuna parte. Lì capisci che, se metti in classe insieme con gli
altri dei ragazzi che soffrono per difficoltà di vario genere, lo
fai non per carità, per la nostra gentilezza di persone normali
verso gli sfortunati, ma per cominciare a mettere tutti di fronte
alla propria responsabilità rispetto agli altri. Oltre che per il
fatto che è giusto e che chi ha un problema di suo deve ricevere
attenzione quanto possibile.
Le cose che
ti raccontano questi giovani profi non solo ti fanno toccare con mano
tutti i giorni questa faccenda, che i ritardi e gli handicap non
tolgono niente all'umanità delle persone, come sa benissimo chiunque
stia regolarmente vicino a uno di loro, per lavoro, per
famiglia o per altro, ma ti fanno capire quanto il fatto di avere questi compagni possa contribuire a far stare tutti in classe
con un'altra aria, con un altro sistema, e quasi sempre è meglio.
La maggior
parte dei profi di sostegno non ha quarant'anni e non ha studiato per fare quello
che fa ma per insegnare altre varie cose. Poi si sono adattati più o
meno facilmente, più o meno volentieri, facendo corsi e imparando,
per poter lavorare, ad affrontare uno o l'altro tipo di problema. E
in genere sono bravi, umani, attenti, pazienti, e con i loro ragazzi
fanno un ottimo lavoro (salvo eccezioni, per carità). Poi ci parli e
scopri che spesso sono anche persone preparate, motivate, che alla
scuola potrebbero fare un gran bene messe a fare quello che sanno
fare meglio. Non che dove sono non facciano la loro parte, ma a volte
penso a quanto sarebbe necessario fare posto e alternare (e talvolta
sostituire) ai vecchi ruderi come me gente di quella generazione,
dalla quale certamente abbiamo (ho) cose da imparare: ce ne sono
alcuni che assumerei subito, magari anche al mio posto, anche se poi
cerco di sbattermi quanto basta per avere il coraggio di guardarmi
allo specchio la mattina. Queste cose mi capita di dirle spesso, a scuola, in giro per i corridoi.
E invece poi ci sono dei vecchi profi (vecchi come me) che non solo non riconoscono
tutto quello che di buono c'è nell'intera faccenda del sostegno, ma
vedono e trattano questi giovani svegli e beninitenzionati come se
fossero il loro stagista o il bidello, sfruttando quella che secondo
loro è un'evidente e naturale superiorità gerarchica per farsi fare
piccoli piaceri e servizi. E' ovviamente un atteggiamento idiota, di
cui avevo già fatto cenno di striscio (qui,
dopo il brano di Kapuscinski) e che ha ancora meno ragioni di essere
se rivolto a questi profi di sostegno. Perchè è gente che ha dovuto
cercare di mettersi in relazione con persone che impongono spesso
sfide complicate e richiedono grande attenzione e capacità di
comunicare. Per questo in genere hanno sviluppato, questo mi sembra
di vedere, un'elasticità, una sensibilità e un'astuzia che noi
mammuth di ruolo il più delle volte ci sogniamo e che li potrebbe
rendere nei prossimi anni molto più utili di tanti di noi, che solo
dopo diversi anni abbiamo capito che la relazione è metà del nostro
mestiere e che, se non teniamo aperti i canali sul piano personale,
non abbiamo speranza di far passare quasi niente sul piano
disciplinare (nel senso di: didattico). Sembra un po' la vecchia faccenda di Hegel, quella del
servo e del signore, con il servo che facendo il lavoro sporco impara
più cose. O sembra il rugby, quando si forma la ruck e impari
quanto sono importanti e necessari quelli che mettono la testa dove
tu non avresti il coraggio di mettere il piede, quelli che ti
spingono avanti, quelli che vanno in sostegno. O che fanno sostegno:
è la stessa cosa.
:)
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