(ultima parte della pigna, poi basta, almeno per un po'...)
L'Italia
ne era piena quando sono nato: me ne vedevo intorno parecchi e non mi
facevano paura. Il primo confronto politico serio al quale ho avuto modo di
assistere in vita mia è stato quello tra mia zia e mia nonna,
che praticamente vivevano con noi e che ogni tanto discutevano un po' perchè la nonna Dosolina era una democristiana naturale, donna religiosa e di campagna (anche se il nonno Sige lavorava soprattutto nell'edilizia, come i suoi fratelli e gran parte della famiglia, anche in seguito), mentre la zia aveva un moroso comunista, figlio di uno dei dirigenti storici del PC di qua, da sempre largamente minoritario. Ricordo bene di avere ricevuto in cucina una prima illustrazione semplice di come potesse essere considerata la questione: dovevo avere una decina di anni o poco più e credo di aver chiesto qualcosa di elementare, tipo chi erano i comunisti. Mia nonna, che stava preparando la tavola e aveva in mano dei piatti, mi disse un po' agitata che i comunisti erano quelli che se tu avevi due piatti e un altro non ne aveva nessuno ne prendevano uno a te per darlo all'altro. Mia zia si girò e ribattè secca che non si trattava di due piatti a zero, ma di cento, mille piatti a zero. Io all'epoca avevo ovviamente una mente piuttosto semplice, e poi ero dell'Azione Cattolica ed ero molto sensibile alla faccenda della povertà e dell'uguaglianza, con annessi cammelli e crune eccetera, e questa cosa di distribuire le risorse non mi sembrava male come idea, quindi tendevo a dare ragione alla zia. Ricordo anche che in occasione di un turno elettorale ci furono discussioni abbastanza frequenti fra le due, perchè la zia voleva convincere la nonna a votare a sinistra e la nonna reagiva dicendo che l'avrebbe fatto, ma in modo un po' passivo ed evasivo, perchè da un lato non aveva nessuna intenzione di cambiare idea, ma dall'altro evidentemente si sentiva un po' tormentata. Quella volta fu solo dopo le elezioni, solo a me che ero (pìù o meno) il nipotino preferito, che a domanda precisa la nonna rivelò: “O votà par la Mocrazìa”
che praticamente vivevano con noi e che ogni tanto discutevano un po' perchè la nonna Dosolina era una democristiana naturale, donna religiosa e di campagna (anche se il nonno Sige lavorava soprattutto nell'edilizia, come i suoi fratelli e gran parte della famiglia, anche in seguito), mentre la zia aveva un moroso comunista, figlio di uno dei dirigenti storici del PC di qua, da sempre largamente minoritario. Ricordo bene di avere ricevuto in cucina una prima illustrazione semplice di come potesse essere considerata la questione: dovevo avere una decina di anni o poco più e credo di aver chiesto qualcosa di elementare, tipo chi erano i comunisti. Mia nonna, che stava preparando la tavola e aveva in mano dei piatti, mi disse un po' agitata che i comunisti erano quelli che se tu avevi due piatti e un altro non ne aveva nessuno ne prendevano uno a te per darlo all'altro. Mia zia si girò e ribattè secca che non si trattava di due piatti a zero, ma di cento, mille piatti a zero. Io all'epoca avevo ovviamente una mente piuttosto semplice, e poi ero dell'Azione Cattolica ed ero molto sensibile alla faccenda della povertà e dell'uguaglianza, con annessi cammelli e crune eccetera, e questa cosa di distribuire le risorse non mi sembrava male come idea, quindi tendevo a dare ragione alla zia. Ricordo anche che in occasione di un turno elettorale ci furono discussioni abbastanza frequenti fra le due, perchè la zia voleva convincere la nonna a votare a sinistra e la nonna reagiva dicendo che l'avrebbe fatto, ma in modo un po' passivo ed evasivo, perchè da un lato non aveva nessuna intenzione di cambiare idea, ma dall'altro evidentemente si sentiva un po' tormentata. Quella volta fu solo dopo le elezioni, solo a me che ero (pìù o meno) il nipotino preferito, che a domanda precisa la nonna rivelò: “O votà par la Mocrazìa”
Invece
non ho mai saputo di preciso che cosa votasse mio padre, che
certamente non era molto impegnato e non sembrava molto interessato,
ma in fin dei conti era un laureato, un professionista, e una qualche
coscienza civile la doveva avere. Ho il ricordo preciso di un
commento sulla politica internazionale che gli ho sentito fare al bar
sotto casa (“da Bubi”) dove ogni tanto mi portava quando andava a
giocare a carte con gli avventori medi del locale che, credo, gli
volevano bene anche perchè lui, dottore, stava amichevolmente con
loro a battere il fante senza tirarsela in nessun modo, come del
resto non faceva mai. In quell'occasione, a conclusione di qualche
discorso sulla precarietà degli equilibri mondiali in un'epoca (del
resto) di recrudescenza della guerra fredda, manifestò, nello stile
diretto che gli era solito, una sostanziale sfiducia nelle
prospettive dell'umanità a breve-medio termine, dicendo pressappoco:
“Ah, cossa vutu... Da qua un fià i ne mete a tuti na bomba su
pal cul...”
Mia
mamma diceva che mio papà era liberale. Lui veniva da un paese del
veneziano ai margini della bassa, l'area della bonifica, dove era
nato in una casa di bonifica assegnata alla sua famiglia di
braccianti (che poi però finirono anche loro a fare soprattutto i
murèri...). La maggior parte dei suoi, ho imparato col tempo,
era di sinistra, tra comunisti e socialisti, e loro dicevano che mio
papà era socialista. Ma non ho fatto in tempo a parlare con lui di
queste cose e non saprò mai bene come la pensava. Comunque io dei
comunisti non avevo paura, mi sembrava che dicessero cose sensate in
linea di principio e mi sembrava, per quel poco che capivo, che
avessero delle ragioni e che le cose per cui combattevano fossero
giuste. Poi, un po' alla volta, ho percepito che da queste parti non
c'era gran simpatia per i comunisti. E non solo da queste parti.
Mentre intorno a questa faccenda cominciavo a mettere insieme qualche
pezzetto di coscienza civile, mi sono accorto che la storia di chi
era comunista e chi proprio no era una questione complicata attorno
alla quale si avvitava un po' tutto il mondo o quasi. Una piccola
spia mi venne fornita anche dal cugino del Venezuela, che usò
proprio quelle parole: “Da noi non c'è molta simpatia per i
comunisti”. E allora ancora sostanzialmente mi chiedevo perchè,
dato che invece a me questa faccenda della distribuzione delle
risorse sembrava ancora quasi ovvia.
Adesso
non mi metto, naturalmente, a ripercorrere i passi del mio
progressivo e non recente disincanto, passato naturalmente sia
attraverso la lettura di un po' di pagine di storia che attraverso
qualche esperienza e conoscenza personale. Mi limito a riportare il
risultato attuale del ragionamento: è meglio che il numero dei
comunisti (in senso stretto) in giro per il mondo sia piuttosto
limitato, sempre a patto che, naturalmente, questo limite non sia
minimamente imposto con la forza ma sia il frutto dell'esistenza,
all'interno di un sistema o di un orizzonte politico, di alternative
più interessanti e praticabili. Il fatto che per tutta la prima età
repubblicana in Italia l'opposizione sia stata principalmente
comunista è uno dei guai che ci portiamo dietro, come il solito
Crainz osserva in termini molto precisi (1). La storia del PC in
Italia merita rispetto ed è piena di personaggi degni, ma ciò non
toglie che sarebbe stato molto meglio che anche i comunisti italiani
ci avessero visto dentro qualche decennio prima, come i
socialdemocratici tedeschi. I quali, come è noto, già alla fine
degli anni '50, dissero chiaramente alle masse operaie e a tutti che,
visto come era venuta fuori la torta sovietica, era il caso di
evitare di riproporre quella ricetta, senza neanche cercare di
inventarsi qualche variazione sul tema. Quindi la rivoluzione non era
il caso neanche di provarci a farla. Piuttosto era meglio tenersi la
faccenda dell'economia di mercato, magari provando, là sì, qualche
ingrediente nuovo, a fare esperimenti sulle dosi, sulle proporzioni,
considerato che una buona parte degli obiettivi storici del comunismo
li aveva approssimati meglio il capitalismo del comunismo stesso (2).
Invece
quelli che si dichiarano comunisti adesso faccio un po' fatica a
capirli. Qualche tempo fa pensavo che servissero a dire le cose che
nessuno diceva, malgrado la loro tendenza storica ad essere
ciecamente intransigenti anche di fronte ai risultati di tante
esperienze e all'impossibilità di affrontare molte situazioni
proponendo (come spesso sono ancora portati a fare) soluzioni
piuttosto ideologiche e dogmatiche. In parte lo penso ancora. Penso
anche che abbiano ancora un po' ragione a sottolineare che alcuni
problemi sotto sotto non hanno realmente cambiato forma, in
particolare penso spesso a come le relazioni industriali nel mondo
del lavoro, il rapporto tra proprietà e lavoro, in sostanza, si
giocano sempre sul filo dello sfruttamento, per quanto la trasformazione delle strutture dell'economia dagli anni '80 abbia cambiato parecchie
cose in questo ambito. Però penso anche che le soluzioni che
propongono siano sempre le stesse, non tengano quasi mai conto di
quanto comunque le cose siano differenti rispetto a prima e si ostinino ad arroccarsi su
una trincea di difesa dei diritti che a volte è fuori dal tempo.
Nella scuola, per esempio, per me lo è certamente. In fabbrica,
invece, forse succedono ancora abbastanza spesso cose che danno qualche
ragione ai comunisti (quelli veri, non quelli come me, che sono stato
cattocomunista solo per un po', dai quindici anni in poi...). Credo
che cambiare quelle cose (che succedono in fabbrica e nel mondo del
lavoro in genere) sia la cosa più importante a cui chi è di
sinistra dovrebbe pensare, e credo che sia un problema
difficilissimo. Ma credo anche che la difesa a oltranza della trincea
sia una scommessa persa.
Perchè
credo (e questa è la cosa che sono riuscito a dire, per ultima) che
il vero problema dell'Italia di questi ultimi lunghi difficili
decenni di triste e innegabile decadenza, sia stato un altro.
Intendiamoci: non credo affatto che le responsabilità maggiori siano
della sinistra, che non ha quasi mai governato e alla quale comunque
gli italiani si ostinano a non dare un po' più di fiducia neanche
quando se la meriterebbe. La classe dirigente prima democristiana e
craxiana e poi berlusconiana/leghista/postfascista ha chiaramente il
grosso e la sostanza delle responsabilità della situazione di
degrado in cui siamo immersi, il risultato di quella che Scalfari
chiamava la “mutazione genetica” e Cafagna la “grande slavina”.
E credo che sia davvero meschino il loro trucco di sostenere che
l'Italia è stata rovinata dai comunisti, trucco che purtroppo
funziona ancora perchè c'è ancora molta gente che ci crede. Ma
credo che le possibilità di soluzione (sperando che ci siano), non
stiano, ripeto, nella trincea e nel filo spinato. Credo (e questa è
la cosa che sono riuscito a dire) che la direzione in cui andare la
riveli l'analisi degli errori commessi dalla nostra classe politica e
dirigente (qui sì, in parte, anche quella di sinistra) negli anni
dal '70 in poi. Analisi di cui avevo citato in conclusione una
sintesi estrema affidata a due testimoni e protagonisti non
sospettabili, direi, di essere troppo di destra, e che pure dicono:
La grande mutazione genetica si colloca alla fine degli anni
Sessanta e coincide con la prima vera fase di benessere che il nostro
paese abbia mai vissuto. Ci sarebbe voluta una classe dirigente
moralmente e professionalmente capace di di utilizzare quella
ricchezza per costruire una società giusta, civile e agiata. Abbiamo
invece partecipato ad una grande abbuffata nel corso della quale
tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate,
tutti i rapporti imbarbariti (3).
E
ancora: [A]bbiamo cercato il benessere, non il senso del rischio,
dell'iniziativa e della responsabilità individuale. Le imprese hanno
percepito profitti crescenti ma sono state pronte a chiedere la
socializzazione delle perdite, favorite in questo dai sindacati in
lotta contro i licenziamenti e dalla cultura cattolico-sociale. Uno
sterminato esercito di statali si è sindacalizzato e ha ottenuto
miglioramenti economici e un progressivo livellamento dello stipendio
– incentivo non secondario a una progressiva deresponsabilizzazione
del settore pubblico -, si è assicurato spazi di libertà e impunità
che hanno consentito uun secondo lavoro, ha cercato benessere e
consumi ma fuori da ogni logica di responsabilità e di rischio. I
sindacati hanno premuto sul parlamento, che sistematicamente ha
ceduto, per la ruolizzazione di folle di precari, soprattutto nella
scuola, contribuendo così alla dequalificazione della pubblica
amministrazione […]. Su questa realtà si sono creati circuiti di
consenso e di potere che hanno coinvolto maggioranza e opposizione,
sindacati, partiti politici e istituzioni, in un sistema sempre più
corporativo e consociativo. Sotto le apparenti e talvolta durissime
contrapposizioni politiche, l'ideologia cattolica dell'assistenza si
è spontaneamente associata al rivendicazionismo sindacale di
ispirazione classista (4).
Ecco.
Così mi pare. Messi alcuni punti, non so quanto fondamentali o
stabili, ma che sono il frutto di un ragionamento non proprio
superficiale.
Magari adesso per un po' parliamo d'altro.
(1)
Sulla lunga distanza, in realtà, la «doppiezza comunista» ci
appare uno strumento volto non tanto a scardinare la democrazia
quanto a coinvolgervi progressivamente larghe masse. Qualcosa
dell'originaria impostazione però rimaneva, e non era di poco conto.
[...] Il permanere del mito e poi della difesa dell'Unione Sovietica,
e la lunghissima indifferenza nei confronti della realtà dei paesi
socialisti «rivelano» la grande difficoltà ad accogliere le
libertà formali come bene assolutamente intangibile. [...L]a prassi,
di origine staliniana, dell'annullamento e della cancellazione degli
oppositori è solo la spia di qualcosa di più profondo, che atteneva
alle modalità stesse dell'«esser comunista». I documenti e i
verbali interni, la stampa di partito, le memorie dei militanti
compongono un quadro che ha tratti nitidi: una concezione
totalizzante della militanza come «scelta di vita», intrisa di
spirito di sacrificio e di subordinazione al partito; [...] il
primato assoluto della politica e il suo intransigente prevalere sul
privato; un'adesione completa all'organizzazione […]; un
«centralismo democratico» che significava anche la piena rinuncia
all'espressione pubblica del dissenso. [Crainz p. 62-64. A
supporto di questa analisi Crainz cita alcune memorie e ricerche
specifiche su struttura e costume politico del PCI nei primi anni del
secondo dopoguerra. Li riporto per scrupolo, che non si sa mai, e per
far vedere che uno storico non dice cose a cazzo. Si tratta di: P Di
Loreto, Togliatti e la «doppiezza».
Il Pci tra democrazia e insurrezione (1944-49), Il Mulino,
Bologna 1991; S. Bellassai, L'organizzazione come cultura. Aspetti
del rapporto fra militanti e partito nel Pci degli anni quaranta e
cinquanta, in «Storia e problemi contemporanei», 2000, 25; C.
Sereni, Il gioco dei regni, Giunti, Firenze 1991.]
(2)
Una tesi che a me è sempre sembrato sia stata illustrata in modo
geniale, anche se piuttosto farsesco, da quella grande commedia che è
Uno, due, tre! (One, Two, Three!, USA 1961) del solito
Billy Wilder. Così, tanto per fornire uno dei miei riferimenti
ideologici fondamentali a chiunque possa interessare, cioè a
nessuno.
(3)
E. Scalfari, Comincia il gioco dei quattro cantoni, in “la
Repubblica”, 16/1/1994, citato dal solito Crainz, Autobiografia
di una Repubblica, p. 74
(4)
P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991,
citato da Crainz, a p. 77.
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