(avvertenza:
questo post, come i prossimi, è una vera pigna,
complicato e piuttosto palloso,
da leggersi solo da parte di chi
abbia molta buona volontà)
Un'indicazione
è di carattere generale, potremmo dire di metodo, e non è affatto
nuova: le cose cambiano. Magari nella propria vita uno ha
l'impressione che niente si muova e soprattutto ha l'impressione che
i problemi di fondo restino sempre gli stessi. Ma difficilmente è
vero, se si considera un periodo di tempo abbastanza lungo, anche per
un individuo. Figuriamoci se si considera la storia. Ma il pensiero
che le cose cambiano è meno ovvio di quanto sembra. E l'implicazione
più diretta di questo pensiero è che non possiamo andare a cercare
troppo lontano e troppo in profondità le ragioni dei guai che stiamo
passando: se cerchi le ragioni di un problema in qualche natura
profonda (di popolo o di civiltà...) vuol dire che quel problema non
lo vuoi risolvere o che, se anche lo vorresti risolvere davvero, non
ci riuscirai.
Dunque,
se ci chiediamo come siamo arrivati qui, come ha fatto l'Italia a
cacciarsi nella situazione in cui è, intricata abbastanza da farci
sospettare spesso che sia impossibile da sciogliere, è idiota
cercarne i motivi troppo lontano. Ogni volta che si considera un
passaggio, un giro di tempo e di eventi, è sempre possibile pensare
possibilità che non solo erano diverse e alternative rispetto a
quelle che si sono realizzate, ma che erano in campo e che qualcuno
aveva ipotizzato e spinto. Spesso diciamo che non possiamo studiare
la storia di ieri perchè ancora troppo fresca e quindi troppo calda.
Ma dimentichiamo che proprio per questo siamo in grado di valutare
con una certa concretezza e con meno difficoltà quali tra le idee e
le proposte in campo avevano davvero un senso ed erano plausibili
piuttosto che essere velleitarie e marginali.
Allora,
tra le cose che ho potuto leggere in queste settimane, la prima che
consiglierei (questo l'ho detto, più volte) è il libro recente di
Guido Crainz (1), che questa idea che ogni epoca ha le sue
possibilità e i suoi errori la mette e la tiene bene al centro dal
principio. E che cerca di individuare con precisione, trovandone
l'origine in un tempo o in un passaggio determinati, le radici delle
tare che ci portiamo dietro e che spesso ci sembrano ataviche perchè
ci pare di non riuscire a farci niente. Le tre cose che non sono
riuscito a dire in realtà le dice lui, il Crainz. Io mi limito a
riportarle perchè mi sembra che facciano un po' di luce e ci diano
un mezzo criterio per orientarci, adesso.
La
prima trova una sintesi molto precisa in un'osservazione fatta da
Giuliano Amato al momento delle dimissioni del suo governo nel '93,
poco dopo l'esplosione di Tangentopoli e della crisi della prima
repubblica. Amato interpreta quello che sta succedendo come “un
autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settant'anni quel
modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e
che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a
trasformare il singolare in plurale” (2).
Pare che quando Amato disse questa cosa molti protestarono e
criticarono, sottolineando che (ed è vero) il fatto che ci siano
molti partiti fa già tutta la differenza rispetto alla situazione in
cui ce n'è uno solo. Ma forse la differenza, che pure c'è ed è
molta, non è abbastanza. Crainz dice che uno tra gli aspetti per cui
la discontinuità tra l'Italia fascista e l'Italia
repubblicana non è stata sufficientemente marcata è il fatto che i
partiti dell'Italia repubblicana hanno appunto ereditato la tendenza
del partito fascista ad essere onnipresente nelle istituzioni, ad
occuparle, ad essere funzionali prima di tutto a se stessi, assumendo
un ruolo parassitario rispetto allo stato, dando luogo a una continua
“confusione tra interessi dello Stato e interessi del partito, o
all'appartenenza politica vissuta come garanzia di privilegio” (3).
In questo modo la “sovrapposizione tra partito, strutture
statali, enti pubblici e semi-pubblici, industrie di Stato, ha
lasciato segni non secondari. Mariuccia Salvati ha dedicato pagine
illuminanti alla «burocrazia parallela» che
popola i nuovi enti, connessi alle nuove funzioni assistenziali e
interventiste dello Stato: una burocrazia «la cui carriera,
dall'accesso alle promozioni, è scandita da benemerenze politiche»,
e che introduce quindi la discrezionalità nel cuore
dell'amministrazione pubblica (4).
Di qui la progressiva evanescenza delle regole, il loro quotidiano
curvarsi per il peso di pressioni e di interessi estranei: e ciò nel
corpo stesso di quello Stato che di esse dovrebbe essere ispirazione
e fondamento. E che diventa per questa via uno «Stato introvabile»,
per dirla con Sabino Cassese. Un'«amministrazione porosa»”. (5)
(1)
Guido Crainz, Autobiografia di una nazione, Feltrinelli,
Milano 2012 (1^ ed. Donzelli Roma 2009)
(2)
G. Amato in Crainz, cit., p. 25. Su questa linea storici come Luciano
Cafagna (La grande slavina, Venezia, Marsilio 1993) e
Salvatore Lupo (Partito e Antipartito, Roma, Donzelli 2004);
critico fu invece Norberto Bobbio che sottolineava la discontinuità.
(3)
Crainz, cit., p. 26.
(4)
Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati,
Laterza, Roma-Bari 1992 p. 9-14.(5)
(5)
Sabino Cassese, Lo Stato introvabile, Donzelli Roma 1998.
Solo quello che hai detto in un'ora ne meritava cinque, figuriamoci se ci mettiamo anche quello che non hai detto. Ma dici che non si riesce proprio a tagliare sulla guerra franco-prussiana e a riuscire ad arrivarci, agli anni 90?
RispondiEliminaSì, ci proverò.
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