(seconda
parte della pigna: una
storia decisamente vecchia ma che qualcuno magari
non ricorda o non conosce e che comunque potrebbe riguardarci)
non ricorda o non conosce e che comunque potrebbe riguardarci)
La
seconda cosa è la vecchia questione della storia divisa, che è
l'altra pesante e difficoltosa eredità del fascismo.
Precisiamo: storia divisa, non memoria. Lo precisiamo in modo un po' pedante perchè poi a volte si sente parlare della memoria divisa come problema. Ma il fatto che la memoria sia divisa è naturale: se mio nonno è stato ucciso dai fascisti, la mia posizione personale, all'inizio, non potrà non essere radicalmente opposta a quella di uno al quale lo zio è stato ucciso dai partigiani. Ma questo all'inizio: poi il compito della storia è esattamente quello di tener conto di tutto e di mediare. Non di mediare a tutti i costi, non di mediare dando colpi a cerchi e botti. La mediazione deve rispettare quella verità laica che esce dai documenti e dalle testimonianze dopo che ci abbiamo lavorato sopra criticamente e che è laica perchè possiamo sempre riaggiustarla. E deve tendere a produrre una ricostruzione che venga tenuta per buona da tutti quelli che condividono un insieme di idee di fondo, morali e politiche, di princìpi. Una storia: condivisa e non più radicalmente divisa, quindi capace di rendere meno complicata la costruzione della rete di ragioni che ci permettono di vivere insieme, come comunità legata dalle istituzioni, dalla politica.
Precisiamo: storia divisa, non memoria. Lo precisiamo in modo un po' pedante perchè poi a volte si sente parlare della memoria divisa come problema. Ma il fatto che la memoria sia divisa è naturale: se mio nonno è stato ucciso dai fascisti, la mia posizione personale, all'inizio, non potrà non essere radicalmente opposta a quella di uno al quale lo zio è stato ucciso dai partigiani. Ma questo all'inizio: poi il compito della storia è esattamente quello di tener conto di tutto e di mediare. Non di mediare a tutti i costi, non di mediare dando colpi a cerchi e botti. La mediazione deve rispettare quella verità laica che esce dai documenti e dalle testimonianze dopo che ci abbiamo lavorato sopra criticamente e che è laica perchè possiamo sempre riaggiustarla. E deve tendere a produrre una ricostruzione che venga tenuta per buona da tutti quelli che condividono un insieme di idee di fondo, morali e politiche, di princìpi. Una storia: condivisa e non più radicalmente divisa, quindi capace di rendere meno complicata la costruzione della rete di ragioni che ci permettono di vivere insieme, come comunità legata dalle istituzioni, dalla politica.
Da
un po' di tempo, con qualche ragione, si sottolineano molto i limiti
della prospettiva che nel secondo dopoguerra si è cercato di
costruire a partire dal punto di vista dei vincitori, della
Costituzione, dell'Italia repubblicana. Si dice che la Resistenza non
è stata abbastanza forte diffusa e radicata da produrre un
sentimento civile unitario solido e autentico, il che in qualche
misura è vero. Si dice (e anche questo in qualche misura è vero)
che negli anni '50-'70 si è coltivata una retorica resistenziale per
certi aspetti enfatica e ipocrita, scarsamente attenta alle ombre del
movimento resistenziale e quindi inaccettabile non solo per quelli
che avevano aderito con convinzione al fascismo, ma anche per quelli
che, pur non essendo fascisti, la Resistenza l'hanno accettata
passivamente o subita senza appoggiarla con qualche convinzione
neanche nella propria dimensione interiore (come pure molti hanno
fatto pur senza manifestarlo apertamente in modo concreto, in quello
che alcuni storici hanno definito “antifascismo esistenziale”).
Si fa poi una terza osservazione che ha un certo fondamento, quando
si ricorda come negli anni '60 e '70 si sia usato l'antifascismo come
giustificazione fondamentale della militarizzazione della politica e
dell'uso della violenza, fornendo poi qualche appoggio alle
ideologie del terrorismo.
Ma
ci sono molti ma: tutti questi limiti non cancellano una verità
(laica) di fondo: che questo legame tra la spinta ideale della
Resistenza e le ragioni di fondo dell'esistenza e dell'ordinamento
dell'Italia repubblicana è rimasto e ha funzionato (e in qualche
misura ancora resta e funziona). Certo non bene quanto hanno
funzionato altri patrimoni ideali-ideologici: Francia e Gran Bretagna
a parte, anche la Germania, che non ha quasi avuto una Resistenza,
pure è riuscita, nonostante la distruzione, il crollo ideale e il
senso di colpa, a mettere insieme un ethos collettivo che (pur
con qualche limite, anche là) le ha permesso di attraversare la
storia del secondo '900 giocando ancora un ruolo da protagonista, e
non solo sul piano economico. Noi non siamo stati altrettanto bravi.
Ma delle risorse le avevamo: quantitativamente non dominanti, non
capillarmente diffuse, ma qualitativamente di ottima fattura. Si sono
tirate secchiate di merda contro la formula un po' trita della
“Repubblica nata dalla Resistenza”, ma l'Italia repubblicana è
stata indiscutibilmente l'Italia migliore, non solo per il miracolo
economico ma per il grado di libertà di cui abbiamo goduto e per il
grado di coscienza civile che abbiamo raggiunto: tutti indicatori nei
quali certo avremmo potuto arrivare a livelli migliori, livelli che
però prima in Italia nessun'epoca (periodo, regime...) ha mai
toccato. E se perlomeno questi risultati li abbiamo avuti, lo
dobbiamo proprio a questo po' di senso dello stato, a questo ideale
civile che si è costruito grazie all'antifascismo e che ci ha
permesso di vivere liberi in un paese in cui convivevano e si
combattevano (politicamente) il più forte partito comunista
dell'Occidente e un partito cattolico al quale la permanenza costante
al potere ha permesso/ispirato pratiche di sottogoverno alla lunga
letali.
Spesso
ho pensato che quelli che vogliono buttare via questo piccolo
prezioso patrimonio poi non hanno mai a disposizione qualcosa di
solido con cui sostituirlo. Via la retorica della Repubblica e della
Resistenza? Ok, a me non piace la retorica. Ma al posto di questa,
cosa ci mettiamo? Non abbiamo niente altro che valga altrettanto,
neanche lontanamente. Questa gente che pensa che dobbiamo rinunciare
a questo riferimento e poi non ha, non può avere, niente di meglio e
di serio da proporre, è quella contro la quale credo che adesso,
oggi, dovremmo opporre una capacità di credere, un'etica pubblica
ricostruita, dei fondamenti su cui mettere in piedi finalmente un
senso dello stato decente, con tutte le difficoltà che, oggi forse
più di trenta o quarant'anni fa, questo impegno deve affrontare.
Crainz
crede che questa posizione scettica nei confronti dei principi del
nostro costituzionalismo repubblicano, trovi un punto d'origine (o
almeno sia ben rappresentata nella sostanza) dal famoso rifiuto di
prendere posizione contro il fascismo da parte di Prezzolini che,
mentre Mussolini si prendeva l'Italia, propose di stare a guardare
con distacco critico, mantenendo salve la propria integrità
intellettuale e la propria superiore moralità grazie alla fondazione
di una “società degli Apoti”:
quelli che non se la bevono, che non aderiscono né combattono
neanche a costo di lasciare che il peggio trionfi. Quel grande
italiano che è stato Piero Gobetti,
che pure di Prezzolini era amico, appena tre giorni prima della
Marcia su Roma aveva risposto a questa provocazione dicendo:
«Di
fronte a un fascismo che con l'abolizione della libertà di voto e di
stampa volesse soffocare i germi della nostra azione, formeremo bene,
non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non
per fare la rivoluzione, ma per
difendere la rivoluzione» (1).
Allora,
il carattere essenziale degli apoti
(al di là della posizione “nobile”, anche se drammaticamente
inopportuna, di Prezzolini) potrebbe essere individuato in una specie
di abbandono pigro a una tradizione assorbita in modo sostanzialmente
passivo. Di qui la sfiducia fondamentale nella possibilità stessa
del cambiamento, nella capacità di costruire un'etica pubblica che
attraverso il costume metta un limite spontaneo alla dinamica
(fisiologica, utile e legittima) degli interessi individuali. “Le
pagine di Longanesi, di Guareschi e di altri ancora
offrono riferimenti e conferme a un sentire comune impastato di
rassicuranti valori o stereotipi (talora sinceramente condivisi,
talora stancamente invocati a proprio alibi). Sono le corde antiche
della patria, della famiglia, dell'ordine sociale e morale, di un
cattolicesimo più spesso sbandierato che intimamente vissuto. Si
aggiunga, come s'è detto, la diffidenza – se non la paura – nei
confronti della democrazia in costruzione, o quel disprezzo per la
politica che il fascismo delle origini aveva predicato e i guasti del
regime avevano accresciuto”. E
gli apoti
sopravvivono (e prosperano) non solo durante il fascismo e la guerra,
ma anche dopo, nell'Italia repubblicana: “è
il clima del dopoguerra a infoltire e a modellare le file degli apoti
convogliando antiche vocazioni e nuove propensioni, e dando vita a
stati d'animo destinati a durare. Dando corpo a una sorta di «partito
trasversale»,
non di rado incline a un'adesione rassegnata e scettica alla
Democrazia Cristiana” (2).
Anche
negli ultimi anni sarebbe stato molto meglio che, insieme a un sensato
sgonfiamento della retorica resistenziale (3), si fosse manifestata,
anche abbastanza perentoriamente, la richiesta di un esame di
coscienza da parte degli apoti, operazione che,
disinvoltamente, anche i tanti cinici di cui
oggi l'Italia è piena continuano a rifiutarsi di compiere. Perchè
ci sono (stati) degli apoti che
hanno una loro nobiltà e dignità (tipo Montanelli, anche se,
appunto, invitava a turarsi il naso e votare DC...), e ci sono quelli
il cui pensiero non ha nessun respiro ma alimenta solo un'ostinazione
sorda, un attaccamento tenace e miope al proprio orto, i cui confini
vanno (e vengono) difesi in tutti i modi utili allo scopo, per quanto
poco puliti. Li conosciamo bene e
li incontriamo tutti i giorni, questi che la sanno lunga, che
guardano con sufficienza alla sfera dell'azione civile dall'alto
della loro realpolitik
spicciola e sorridono dello sforzo di chi si sforza di
fare qualcosa di simile al bene comune. Quelli che in fondo pensano
che il mondo è dei furbi e che le cose non cambieranno mai. Quelli
che trovano le ragioni della politica nella falsa
profondità di antropologie fumose da osteria, per cui un popolo è
così per natura e non se ne può trasformare la mentalità e
il comportamento, quindi l'unica cosa da fare è adattarsi alla
situazione e valutare come ricavarne il massimo vantaggio. Quelli che
ti fanno i complimenti perchè ti sbatti e ti dai da fare, ma sotto
sotto pensano che sei un fesso e che se ti sei scelto una parte che
non ti permette di approfittare degli altri sono cazzi tuoi. Sono i
figli e i nipoti di quelli che, all'epoca, prima hanno accettato il
fascismo, poi lo hanno ricordato con indulgenza, quindi hanno cercato
di trasmettere questo ricordo alle generazioni successive,
perpetuando la stirpe dei non-bevitori e impedendo sempre, anche
oggi, alla destra dell'Italia repubblicana, di diventare una forza
politica liberale, rigorosa e moderna (che considera sì l'interesse
come motore della società, ma pretende che la competizione si svolga
all'interno di regole ferree) e quindi rispettabile. Credo che siano
quelli, per capirci, che, sentendosi o essendo liberalconservatori o
qualcosa del genere, tra Monti e Berlusconi continuano a scegliere,
dopo tutto e per me incomprensibilmente, il secondo.
Dunque,
per me, la cosa con la quale sarebbe ora di farla finita, seriamente,
è prima di tutto questa: dovrebbe essere guardato e trattato come un
mostro e un incivile chi si azzarda a dubitare della necessità
assoluta di uno spazio comune di civiltà in cui stare con idee
diverse ma con rispetto e con fiducia. E chi lo mette in questione in
nome di un cinismo a cui attribuisce magari profonde radici ideali
nascondendoci dietro qualche roba sua e meschina, i soliti piccoli
interessi. Vorrei trovare in piazza una grande maggioranza di gente
che viene volentieri con me al bar a bere e a parlare. E quelli che
non se la bevono che stiano per i cazzi loro.
(1)
P. Gobetti, La
rivoluzione liberale, n.
31, 25 ottobre 1922. Piero Gobetti è morto a 25 anni, nel
1926, in Francia dove si era rifugiato dopo l'affermazione del
fascismo in Italia, anche in seguito alle violenze di cui più volte
era stato fatto oggetto da parte dei fascisti. Prezzolini (la cui
figura complessa non è certo riducibile a questa discutibile presa
di posizione) era tra gli amici che vegliarono Gobetti sul letto di
morte. Per un ragionamento sugli Apoti Crainz rimanda alle
pagine 114-128 della Storia dell'Italia repubblicana di Lanaro
(Marsilio, Venezia 1992): io non ce l'ho ma mia cognata sì e presto
me lo faccio prestare e per cominciare leggo proprio
quelle pagine.
(2)
Crainz, cit., p. 44 e 45.
(3)
Che, direi io, però permette anche di raccontare la Resistenza fuori
dagli eccessi di enfasi, con tutte le ombre, ma con una verità e una
concretezza che per certi aspetti ne fanno emergere meglio di prima
l'importanza e il peso sul piano dei principi: tante ricerche
recenti, per esempio sulla memoria orale della Resistenza, ne danno
esempi molto belli e solidi.
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