Non
è un'ossessione frutto di snobismo intellettuale: io odio veramente
i turisti. E soprattutto odio me stesso quando non impedisco alle
circostanze di fare di me qualcosa di molto simile a un turista.
Ho
sperimentato molte volte come chi non sa non vede. Questo
specialmente se il problema è farsi un'idea dell'urbanistica e
dell'architettura e, naturalmente, dell'arte, nella loro connessione
con la storia. Questo fa sì che io pensi che uno dovrebbe spostarsi
solo per andare a vedere cose di cui sta studiando o ha studiato; cose che conosce
bene e sulle quali ha bisogno del sentimento prodotto dalla presenza:
la propria nel posto e quella del posto (e delle cose che ci si
trovano) davanti ai propri occhi. Riuscire a fare questo vorrebbe
dire conservare una specie di integrità, che mi verrebbe da definire
spirituale piuttosto che morale, anche se tutti e due gli aggettivi
mi sembrano imprecisi.
(all'imbocco
di via Condotti con Piazza di Spagna due signori di origine
orientale, tipo India o Sri Lanka, CUOCIONO CALDARROSTE sulle bronze
in un bidone di lamiera! IL GIORNO DI FERRAGOSTO!)
Ma riuscire
a fare questo è difficile se prima non ci si è procurati delle
condizioni di vita che permettano una grande, davvero grande,
indipendenza di scelte. Questa indipendenza può essere consentita dalla
ricchezza. Ma per ottenere o anche solo mantenere la ricchezza è facile sia necessario compromettere a priori la propria 'integrità spirituale'. Oppure può essere consentita da un'alchimia di decisioni, alcune delle quali sono
verosimilmente piuttosto radicali e comunque richiedono molta saggezza: quella
necessaria a creare nel rapporto col mondo un equilibrio che appare
come uno degli obiettivi più difficili da realizzare.
(inoltre a ferragosto tutti i negozi
gestiti da cinesi e che vendono bataria sono aperti. Sono quasi gli
unici ma non proprio: prasempio
sono aperti anche MaxMara e Furla, mentre Zara è chiuso)
Lo so:
faccio ridere. Sto dicendo che per fare una vacanza decente uno
dovrebbe essere un uomo veramente e profondamente libero. Come dire
che per non sentirsi in colpa di fronte a un mendicante o a uno
sfortunato dovresti essere un santo. Beh: farà anche ridere, ma in
fondo è precisamente quello che penso... Questo spiega il mio
sentimento di non essere in fondo degno di stare a Roma per questi
pochi giorni e il mio oscuro senso di colpa per il fatto di
non riuscire a cogliere sempre con vera profondità il respiro della
storia e di non provare sempre e con la massima intensità l'emozione
memorabile che dovrebbe conseguirne.
(quando uscivamo la nostra direzione
era quasi sempre: Ponte Sisto, via dei Pettinari, via dei Giubbonari,
Campo de' Fiori; lungo via dei Pettinari si trova la piazzetta della
Trinità dei Pellegrini, la chiesa nel cui “ospizio” sono stati
curati e spesso sono morti i difensori della Repubblica romana al
momento dell'assedio francese del 1849. Tra di questi una lapide
segnala che c'era anche Goffredo Mameli)
Ma è chiaro
che se vai via per pochi giorni, in cui cerchi di ammortizzare la spesa
vedendo il più possibile, trasformi la situazione in una fatica in
cui è evidente che a momenti l'obiettivo principale diventa bere
mangiare pisciare dormire sedersi stare all'ombra, mentre la capacità
di raccogliere quello che resta della propria coscienza per capire o sentire qualcosa spesso viene
meno con evidenza e tu ti senti principalmente un pezzo di carne con
gli occhi, con il sangue che pulsa e ti riempie di sensazioni animali.
(in particolare da Furla vediamo
uscire una donna araba, apparentemente sessantenne circa, ben coperta
dal suo niquab nero,
che esce dal negozio pavoneggiandosi compiaciuta per la sua nuova
borsa, accompagnata dal marito, che ha l'aspetto (baffetti e ociai
spessi con montatura de tartaruga) e l'abbigliamento (camiseta
a quadri maneghe curte
e braghe co le pens)
di un ragioniere del catasto yemenita)
Fatta la
tara di tutto questo, e naturalmente del sommo troiaio creato
comunque dalla presenza imponente di tutti gli altri turisti,
cerchi comunque di cavarne qualcosa. Ora: non sarò certo io a dire
su Roma qualcosa di nuovo e decisivo, ma due pensieri rachitici mi si
sono formati con fatica tra gli stenti della vacanza, quindi adesso
cerco di darci forma. Uno è che Roma mi pare l'unica città che
conosco capace di stare a confronto con Venezia quanto all'infinità
e all'imprevedibilità di possibilità visive e di soluzioni
nell'organizzazione dello spazio, sia per largo che per alto.
Naturalmente Roma è di più: magari Venezia ha l'acqua che
introduce una vibrazione sempre diversa e non imitabile, ma Roma è
grande, larga e, anche quanto al tempo, ci si trova ovviamente roba
distribuita lungo un giro di secoli molto più vasto e disteso (a
Venezia manca tutta la dimensione dell'antichità), il che
aumenta le possibili varianti e combinazioni.
(al ghetto ebraico, via del Portico di
Ottavia, c'è un negozio di elettrodomestici chiuso di fronte al
quale si sono trovati e sono lì fermi a parlare – alcuni in piedi,
altri seduti sugli scalini, tre siore hanno perfino ciascuna la sua
careghetta tubolare con sedile di tela - uomini e donne anziani, una
quindicina circa: stanno lì e parlano la mattina del giorno di
festa...)
La cosa più
impressionante di Roma mi è sembrato proprio il fattore
quantitativo, l'accumulo. Che appare chiaramente come il risultato
nel tempo della volontà di grandi poteri (l'impero romano, il
papato, in misura minore lo stato italiano) di manifestare al mondo
se stessi, la propria grandezza e il proprio livello di civiltà. Per
esempio i Fori, o San Pietro, o la Galleria Borghese, sono luoghi
letteralmente pieni di cose straordinarie, molte delle quali anche
prese da sole basterebbero a dare senso e valore all'intera vita e
attività di un artista. Invece tutta questa roba è concentrata
accostata combinata nello stesso posto, risultato di una vertiginosa
costruzione estetica e intellettuale durata secoli, tra mille
cambiamenti e revisioni che naturalmente continuano, costruzione dal
cui effetto viene naturalmente sommerso – come da una specie di
onda – chiunque non abbia una preparazione vasta e una
frequentazione e familiarità con i luoghi. Questo pensiero ha
contribuito a farmi sentire meno a disagio nell'insieme, anche quando
la stanchezza e la sete mi impedivano di riflettere e di provare a spremere
fuori qualche genere di comprensione e di emozione di fronte a quello
che vedevo.
(questo è V. che gioca nella
fontana del nuovo complesso dell'Ara Pacis, che a noi è molto
piaciuto)
Diciamo
anche che, al di là di qualche episodio, abbiamo trovato in genere
gente gentile e simpatica. In particolare un pomeriggio, in un
baretto a Trastevere vicino a dove dormivamo, abbiamo conosciuto in
modo del tutto casuale un giornalista abbastanza famoso, che lavora
soprattutto in tv e, insieme ai suoi amici, è stato gentilissimo
con noi dandoci un sacco di indicazioni non ovvie su cosa vedere e dove
mangiare, oltre ad accompagnarci per un'oretta in un breve giro nel
quartiere a vedere dei posti interessanti e poco noti (“La verità
è che nun c'avemo un cazzo da fa'...”). Per dovere di riconoscenza
citiamo almeno la Trattoria da Teo (piazzetta Ponziani, dietro il
ministero della salute, a 50 metri dal lungotevere, poco a valle
dell'isola Tiberina), dove abbiamo mangiato benissimo spendendo poco
(ottimi carciofi alla giudìa e fiori di zucca e soprattutto
un'amatriciana e una cacio e pepe notevolissime).
(nel negozio Nike, reparto Tennis, un
giovinotto, direi straniero, non proprio atleticissimo e un po'
peocco, si prova una maglia arancione-fastidio e mima energicamente
il dritto e il rovescio guardandosi allo specchio. La sua morosa sta
seduta lì e lo guarda. E il fatto è che lui si fa guardare, e va
avanti per un po'. 'Vattene finchè sei in tempo', direbbe qualcuno.
Ma lei dalla faccia sembra rassegnata e incapace di reagire. E sta
lì...)
Resta vero
che se non sai bene cosa vedi dovresti muoverti solo per lavoro o per
studio: solo in questi casi partecipi della vita di chi vive
normalmente in città, conosci la gente, frequenti gli stessi posti,
fai le cose con un ritmo umano, con meno tempo libero ma anche senza
l'ossessione di vedere il più possibile a tutti i costi. Quando fai
il turista sei destinato a non capire quasi niente e, anche se
comunque cerchi di sfruttare l'occasione come puoi, ti pesa.
(la sera, mentre passeggiamo, giriamo
un angolo e ci arriva addosso un brandello di conversazione animata
tra uno e una: lui è di spalle e si vede solo che è vestito
moderno; lei è mora e un po' traccagna ma carina e ha un aspetto
abbastanza aggressivo. Infatti quello che sentiamo è lei che
dice a lui: “Mo', si credi de damme la colpa a 'mme, m'hai rotto
er cazzo!”)
(negli ultimi due-tre anni a Roma sono state collocate molte di queste stolpersteine, pietre d'inciampo, davanti alle case da cui, a partire dal 16 ottobre del 1943 sono stati prelevati dei cittadini italiani di origine ebraica per essere deportati e, quasi sempre, uccisi; queste si trovavano davanti al portone della casa in cui abbiamo dormito)
(p.s. - siamo di ritorno dalla GNAM (Galleria Nazionale di Arte Moderna), spazio che è, come ricordavo, bello e ricco e appassionante, verso il quale, nella mia ignoranza, ho solo una punta di perplessità, che non saprei ben giustificare, sull'allestimento; poi vogliamo evitare, per una volta, di farcela tutta a piedi, così prendiamo un tram chiedendo indicazioni, ma ci tocca fare un giro strano, scendere a Viale Giulio Cesare e fare un pezzetto a piedi per beccare l'autobus che ci riporti alla stanza; arriviamo alla fermata, via Marcantonio Colonna, davanti alla quale ci sono una gelateria e una friggitoria che fanno affari d'oro, perchè quasi tutti in attesa del bus entrano da una parte o dall'altra; L. prende un gelato a un gusto strano con arachidi, V. avrebbe fame ma diffida perchè due giorni prima ha preso un supplì [o arancino, non ricordo] in una pizza e friggi a Trastevere e ha detto che era impaccato, freddo da freezer nel mezzo e forse un poco rancido; ma qui vediamo che hanno appena scolato delle robe tonde di colore grigiobeige e diversa gente se ne fa fare dei panini; tendo l'orecchio e sento che la parola d'ordine è: "pane e panelle"; così convinco V. e ordino: mi danno un panino tondo coi semi di sesamo in cima e dentro cinque o sei di queste panelle (frittelle di farina di ceci) condite con sale pepe e limone; do un morso a questa roba rovente: buooono...)
mai capito infatti, il senso dei viaggi in siria e india di mia zia rosetta
RispondiEliminaAlla fine bisogna avere comprensione per la zia Rosetta: le zie hanno i loro diritti. Certo che il turismo di massa è una piaga e farsene coinvolgere anche solo in parte a me crea problemi di coscienza. Ma son esagerato, lo so...
RispondiEliminaBisognerebbe viaggiare solo per andare a trovare le persone.
RispondiEliminaSì. O comunque perchè si deve davvero fare qualcosa in quel posto dove si va.
RispondiEliminaTipo bere spritz con le persone che si vanno a trovare.
RispondiEliminaNo, dai, anche lavorare o studiare. Mica si può stare lì solo a preoccuparsi delle proprie zampe... ;)
RispondiEliminaAnch'io mi faccio paranoie simili quando viaggio. Soprattutto se vado in un Paese economicamente povero, in cui la gente comune non può nemmeno sognare di viaggiare come io in quel momento sto facendo (sia per colpa della povertà sia per le restrizioni sul movimento delle persone, come i visti).
RispondiEliminaIl modo in cui di solito viaggia gente come te o, per esempio, Gaetano, è quello giusto: si va in un posto ospiti e si vive per un po' con la gente di là facendo più o meno quello che fanno loro. Così quasi ogni posto diventa interessante.
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