Ho
visto l'altro giorno che Simone
dice pressappoco che secondo lui è un errore insistere sulla memoria
divisa della Resistenza: secondo lui la strumentalizzazione (l'uso
pubblico) della storia è colpevole soprattutto di avere prodotto
l'immagine di una Resistenza fatta di gruppi in opposizione anche
radicale tra loro. Invece, dice lui, si dovrebbe prima di tutto
raccontare la fondamentale unità che ha spinto a lottare per la
libertà persone che avevano provenienze sociali e ideali differenti.
Nell'insieme sono d'accordo,
in sostanza. E' vero che una parte delle istituzioni e dell'opinione
pubblica ha cercato subito di rimuovere e insabbiare quanto possibile
la memoria, allora recente, della Resistenza proprio sottolineando
prima di tutto le divisioni ideologiche tra i diversi orientamenti e
il ruolo fondamentale esercitato dai comunisti. Questa è ancora un
po' la posizione, per esempio, di Galli della Loggia e di quelli che
dicono che la patria è morta l'8 settembre '43 e che la Resistenza
non è bastata per darle delle nuove fondamenta proprio per colpa
dello spirito di parte (e di vendetta) e delle velleità
rivoluzionarie dei comunisti (1). A me non pare che le cose stiano
così: anche se il registro fondamentale secondo cui raccontare la
Resistenza deve essere più quello del dramma (e spesso della
tragedia) che quello dell'epica, credo esattamente che sia comunque
in questa storia, magari non sempre eroica e splendida (ma in molte
occasioni anche sì), che possiamo senza dubbio trovare le ragioni
che ci permettono di stare insieme come italiani, il progetto di un
paese moderno e libero (2). E il tentativo (inefficace e in sostanza
sbagliato, ok) di scolpire un monumento puramente celebrativo alla
Resistenza mi sembra sia stato in parte una reazione al tentativo
(quello sì piuttosto efficace, anche se certamente ancora più
dannoso) di minimizzarne il significato e gli effetti per ridurne la
portata in termini di novità e rottura. Sono state scritte migliaia
di pagine su questo tema del tradimento della Resistenza, sulla
continuità tra la classe dirigente dell'epoca del fascismo e quella
dell'età repubblicana, e non sarò certo io ad aggiungere qualcosa
ai termini della questione. Ma credo che il problema stia proprio nel
rifiuto di una parte dell'opinione pubblica di riconoscere che solo
nelle idee e nei progetti di chi ha combattuto la guerra di
liberazione si potevano trovare le radici di un'Italia moderna. In
questo rifiuto si trovano i semi del clima che ha permesso nel tempo
la sopravvivenza strisciante del fascismo di cui abbiamo detto sopra.
E però credo anche che se le divisioni ci sono state vadano
raccontate e discusse per filo e per segno, come pure va considerato
il fatto che, per quanto confusamente, una parte del movimento di
opposizione armata ai tedeschi e ai fascisti, pensava a quella lotta
come all'inizio di una guerra di classe, rivoluzionaria.
Per questo sono d'accordo
anche con chi dice che, dall'altra parte, assumersi il compito di
tenere viva la memoria della lotta per la libertà comportava
l'impegno di raccontare tutto per bene, di non tenere nascoste le
vergogne e i crimini quando c'erano, senza cercare di costruire per
la Resistenza un monumento compatto e senza ombre. Perchè in questo
modo si sono lasciati fuori, come se non fossero degni di essere
ascoltati, eventi e memorie che poi nel tempo hanno reclamato il loro
spazio, e si è permesso a chi poi ha recuperato queste vicende di
farne un'occasione per mettere di nuovo in dubbio la possibilità
della Resistenza di fondare la costruzione di un sentimento civile
collettivo: se, pur avendo ragione, non accetto di affrontare fin
dall'inizio i miei torti, poi questi torti potranno essere usati
contro di me, in modo magari strumentale ma con un peso che potrebbe
apparire ancora maggiore (3).
Detto questo però torno al
mio punto: i limiti e le contraddizioni non si devono tacere ma
devono essere pesati per quello che pesano. Penso di essermi fatto
un'idea abbastanza chiara di cosa poteva significare essere comunisti
alla fine della guerra, nel bene e nel male. E penso che la
cosiddetta (ma in una certa misura reale) egemonia dei comunisti
sulla Resistenza non basti a giustificare il tentativo di rendere
marginale la lotta partigiana nella storia e nella coscienza civile
degli italiani: quello che sopra ho chiamato pressappoco “fascismo
strisciante”. Che le brigate comuniste fossero le più numerose
dipendeva molto dal fatto che i comunisti erano i più organizzati,
erano quelli che anche sotto il fascismo erano riusciti a ricostruire
un po' di organizzazione in clandestinità e per questo erano stati i
più pronti a reagire e ad attivarsi nel momento in cui era caduto il
regime. Questo non vuol dire che poi tutti i partigiani delle brigate
Garibaldi fossero filosovietici ortodossi e avessero in mente il
comunismo realizzato e la lotta partigiana come prima tappa dello
sterminio della borghesia. E il ruolo giocato dai comunisti nella
storia dell'Italia repubblicana, negli anni della guerra fredda,
stando sostanzialmente dentro i termini del gioco democratico, lo
testimonia. Certo, si sa che i comunisti erano comunisti, che cos'era
e come funzionava la macchina organizzativa e ideologica del PCI,
come e quanto il PCI stava attaccato all'Unione Sovietica. Non penso
affatto che il PCI fosse la cosa migliore che ci poteva capitare: da
tanti anni mi chiedo cosa saremmo adesso se avessimo avuto una SPD al
posto del PCI, e personalmente credo che non sarei durato dieci
giorni in URSS e che non avrei resistito due mesi nel PCI degli anni
'50. Ma questo non toglie che anche coi comunisti – non solo e non
principalmente coi comunisti, ma anche con loro – abbiamo un debito
per l'esistenza della democrazia in Italia, debito che va oltre i
limiti della democrazia dentro il PCI e i limiti del ruolo che il PCI
ha giocato nella democrazia italiana, limiti entrambi superati nel
tempo, abbastanza lentamente e con una certa fatica. Insomma: a –
quella della Resistenza era la parte giusta anche se dentro c'erano
parecchi comunisti e b – la presenza e il ruolo dei comunisti nella
Resistenza non bastano neanche lontanamente a giustificare la RSI e
l'alleanza coi tedeschi, specie dopo l'8 settembre quando si sa cosa
comportava quell'alleanza. Che poi io pensi (e lo penso) che si
sarebbero dovute a ogni costo evitare le vendette e le stragi tra
aprile e maggio '45 è un altro discorso. Questo non è un punto di
vista personale: lo è ma solo nel senso che è quello di chi si
mette nella prospettiva del liberalismo e della democrazia, della
Costituzione, un punto di vista che non vedo come non possa, o perchè
non dovrebbe, essere di tutti. E invece non lo è, non abbastanza.
A volte penso a come in
Germania, dove non c'è stata ombra di moto popolare o di opposizione
diffusa contro il regime, neanche quando ormai la guerra era quasi
persa, la ricostruzione storica continui a tenersi ben cari e a
celebrare senza incrinature i due diversi episodi (molto diversi,
anche come ispirazione) in cui pochi testimoni si sono fatti
ammazzare cercando in un caso – i cattolici della “rosa bianca”
- di scalfire la muraglia ideologica con qualche volantino fatto
girare all'università, nell'altro – gli alti ufficiali del
complotto del luglio '44 - di eliminare il dittatore con un
attentato. In Italia le responsabilità dei comunisti bastano sempre
a giustificare quasi tutto, in particolare permettono di gettare
tutte le ombre possibili su un movimento di opposizione politico e
militare che, diversamente radicato e diffuso, ha comunque avuto un
peso di qualche rilievo (d'accordo, non essenziale...) nella guerra,
ma poi ha avuto soprattutto un significato fondamentale nella
costruzione del modello di società che si è realizzato e al quale,
non a caso, dobbiamo un'Italia che è senza dubbio la migliore nella
sua storia: quella della democrazia e dello sviluppo (4), pur con
tutti i difetti e i limiti rispetto ai paesi europei di più antica
tradizione parlamentare.
Allora
che si fa? Si continua a raccontare: Simone ha ragione soprattutto
quando insiste sull'importanza del lavoro fatto dagli storici (locali
e non) sul campo, negli archivi, nella raccolta delle testimonianze
orali, nella costruzione di un quadro fatto di molte scene diverse,
in cui ci stia tutto quello che ci deve stare: i mille personaggi, la
difficoltà del momento e l'enigmaticità delle scelte, i drammi
personali e lo strazio dei sentimenti, gli odi e le compassioni. Ma
occorre – del resto è inevitabile trovare un senso – raccontare dando senso alle
storie dentro l'orizzonte della democrazia liberale, e recuperare in
primo luogo le decisioni e i progetti di chi più chiaramente e più
in anticipo aveva capito che quella era la direzione in cui si doveva
andare. Mi obietto da solo: ma se si recupera solo questo non resta
troppo poco? Mi rispondo: primo, non ho detto solo
questo ma in
primo luogo
questo. Sono arrivato fin qui proprio dicendo che anche i comunisti
vanno recuperati, e anche altre cose. Secondo: no, non è affatto
poco. Tra i semisconfitti, solo i francesi avevano più di noi,
perchè i maquis
hanno cominciato presto e avevano dentro sia De Gaulle che i
comunisti che altro, e infatti sono messi un po' (abbastanza?) meglio
di noi. La Jugoslavia ha avuto Tito, che liberale e democratico non
era, e che è servito un po' finchè è vissuto ma non ha risolto
niente, come tragicamente si è visto poi. I tedeschi –
straordinario - non avevano nulla e da quel nulla hanno tirato fuori
la Germania del dopoguerra, che nel complesso resta una cosa da
ciucciarsi le dita, malgrado i fantasmi e gli scheletri di cui
racconta Heinrich
Böll
(anzi, giusto qualcuno come Böll
sarebbe servito anche a noi... Vabbè che noi abbiamo avuto non solo
Fenoglio ma Calvino...).
Noi avremmo parecchia roba: non tutta pulita, niente affatto
perfetta, come si è detto, ma parecchia. Ma non abbiamo mai imparato
a discutere e criticare senza distruggere, a ripulire senza buttare
il bambino con l'acqua sporca, e l'eredità di questa incapacità ce
la portiamo dietro ancora. E si vede, e ci pesa.
(1)
Ernesto Galli della Loggia, La
morte della patria,
Laterza 19961.
Ho trovato in rete qui
un articolo dal Corriere del 2003 in cui Galli della Loggia
rimprovera ancora alla Resistenza di non aver saputo essere
abbastanza “nazionale”, specialmente per colpa dei comunisti.
Capisco la sua analisi secondo cui all'Italia repubblicana sarebbe
mancato il senso dello stato perchè non c'era più spirito
nazionalistico. Tutti d'accordo che alla classe dirigente della
Repubblica italiana sia mancato in qualche misura (e sempre di più
col passare del tempo) il senso dello stato, qualche dubbio sul fatto
che sia il nazionalismo il modo migliore per trasmetterlo alla gente.
Mi sento tendenzialmente più d'accordo con Alberto Mario Banti che
trova sempre che lo spirito nazionale, anche quello del Risorgimento,
sia più un pericolo che una risorsa, o con Guido Crainz, che di
fronte all'antitesi tra senso dello stato e spirito di parte trova
che una delle matrici del problema stia proprio nel modo in cui il
fascismo si è appropriato dell'idea di patria escludendone tutto ciò
che non era fascista. Non ho sottomano i riferimenti a Banti, il
riferimento a Crainz è sempre ad Autobiografia
di una Repubblica,
Feltrinelli 2012, cap. III, pagine 25-29.
(2)
Uno dei libri più famosi e per
me più importanti in questo senso (l'ho ripreso sitematicamente in
questi giorni dopo averlo passato “a salti” tempo fa) è il
bellissimo epistolario di Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco (G.A. e
D.L.B., Un'amicizia
partigiana,
Boringhieri 2007, 1^ ed. 1990, 20 euri), che mostra come nei pensieri
di chi combatteva ci fosse proprio questo progetto, un'ipotesi di
civiltà nella libertà nella quale credo che dovremmo trovarci
dentro perfettamente e che nella sua ispirazione moderna e
radicalmente liberale si trova per me agli antipodi rispetto al
“fascismo strisciante”. Leggendolo ho pensato e penso che di
quest0 tipo di gente avremmo avuto e abbiamo bisogno. E non erano
santi: facevano la guerra e usavano la forza, il che a me pone sempre
dei problemi. Ma è un modo di fare la guerra e di usare la forza che
riesco a concepire e che sarebbe piaciuto al colonnello
Dax.
(3)
Qualche anno fa una collega mi ha regalato credo il più famoso degli
ultimi libri di Pansa, Il
sangue dei vinti
più volte ristampato da Sperling e Kupfer. Le operazioni come quella
su cui Pansa ha costruito la sua fortuna editoriale degli ultimi anni
sono legittime, per carità: ha raccontato storie che era giusto
raccontare. Ma lo ha fatto scegliendo il più delle volte quella
forma ibrida, una specie di pellegrinaggio della memoria che non è
saggio storico (neanche divulgativo) né romanzo, che mi pare finisca
per isolare gli episodi di violenza dal quadro generale e per
sollecitare soprattutto gli aspetti emotivi. Farà bene a chi si è
sentito escluso, come una specie di riscatto tardivo, ma l'effetto è
stato quello della provocazione, effetto previsto e forse voluto. Fai
benissimo a raccontare situazioni non chiarite, ma magari dovresti
ricordarti di tirare le somme con sufficiente frequenza e di mettere
queste figure non solo in luce, ma anche accanto alle altre figure.
Proprio perchè la faccenda è così delicata e difficile da
maneggiare, dovresti fare il possibile per stare attento a tenere
insieme tutto quello che serve. A meno che fare casino non sia
precisamente il tuo scopo.
(4)
Qualcosa di molto simile mi pare si possa dire per la formazione
dell'unità statale: non ne so molto, ma mi dicono che in Germania
non hanno molte riserve neanche su Bismarck come padre della patria,
a parte forse qualche mugugno da parte dei più socialisti. Eppure,
fossi tedesco, sono sicuro che su Bismarck avrei qualcosa da
obiettare. Invece da noi sui padri della patria si tirano secchiate
di merda con grande disinvoltura. Non dico certo che di Garibaldi
Mazzini e Cavour bisogna fare il santino, anzi, anche in questo caso
l'errore è stato un po' quello di provarci. Ma nell'insieme, con i
loro difetti, dovremmo tenerceli buoni e fare attenzione a tutti e
tre, per quanto differenti: mi risulta che in Germania e in Spagna
qualcuno ce li invidia, e che nel mondo anglosassone li ammirano, o
almeno li stimano. E comunque nessuno dei neopadani o neoborbonici ha
qualcuno di neanche lontanamente simile, per statura e valore, a cui
guardare. E insieme a questi tre ce ne sono molti altri, che sarebbe
lungo qui stare a considerare. Dico solo per esempio che uno dei
libri che vorrei comperare e leggere prossimamente è questo.
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