Ci sono
romanzi (canzoni film eccetera) dai quali si resta commossi ma che
insieme suscitano diffidenza. È
perche si trovano precisamente sul confine tra il cuore della vera
saggezza e l'inconsistenza della totale ovvietà.
Succede quando si
incontra qualcuno che ci parla di cose assolutamente primarie, tipo
il desiderio di giustizia e la differenza tra il bene e il male
oppure la pienezza straordinaria dell'amore che c'è e la nostalgia
invincibile dell'amore che non c'è, oppure la tristezza del tempo
che passa e che non torna.
Si è
diffidenti perchè il fatto di aver studiato e riflettuto un po' ci
ha abituato a pensare che la vera profondità non può essere troppo
facile, non può essere lì, una cosa che chiunque ci può arrivare,
basta allungare la mano. Ma si sa anche che a volte succede proprio
questo miracolo, che qualcuno indovina il punto esatto in cui,
incredibilmente, risulta facile entrare e toccare il fondo delle cose
e si riescono a dire cose meravigliosamente trasparenti e durature
anche se il materiale che si usa sembra roba normale, di poco pregio,
usata e magari abbastanza consunta.
Questo
sarebbe quello che riesce a fare la poesia. La quale però, appunto,
di solito si raggiunge almeno con quel po' di fatica che richiede una
camminata fino in cima a qualche bel posto. Se invece tutto viene e
si capisce subito, allora ci si chiede se è vero quello che si sente
o se per caso stavolta non ci si è lasciati fregare dai trucchetti
di qualche venditore scaltro. A volte quello che ci emoziona è un
luogo comune tanto da sembrarci troppo frequentato: tanto da farci
domandare se va davvero bene che ci fermiamo e lasciamo che ci batta
il cuore.
Penso sempre
queste cose per esempio quando vedo Casablanca (Casablanca,
Michael Curtiz, USA 1942) - la scena della Marsigliese
o il famoso dialogo
finale tra Bogart e la Bergman - oppure nel Sergente
York (Sergeant York, Howard Hawks, USA 1941) – cose come il
dialogo
sulla fede con il pastore e la successiva conversione,
subito dopo che York, è stato [!] colpito da un fulmine, come San
Paolo). Oppure quando ascolto Que
reste-t-il de nos amours (1).
Mi è
successa un po' la stessa cosa leggendo (ascoltando) Il Conte di
Montecristo: da un lato un senso assolutamente ingenuo del bene e
del male e della giustizia divina, dall'altro l'idea dell'avventura e
dell'intrigo spinta all'estremo ma in modo un po' grossolano, con
poca sottigliezza, facendo a volte un su e su: quanto basta
per riuscire ad arrivare a scrivere quasi milletrecento pagine, in
un'orgia di inganni, misteri, tradimenti, amori e dolori, tra
inverosimiglianze assolute e solido buon senso. In mezzo a tutto
questo qualche lampo che appunto non si sa se sia abissale o
inutile, come quello che dà il titolo a questo post e che si trova
nel brano qui sotto. Brano in cui il conte convince a desistere dal
suicidio il giovane Maximilien Morrel, che vuole uccidersi credendo
di aver perso l'amore della sua vita, Valentine, in realtà
sopravvissuta grazie a uno dei diabolici inganni del quasi
onnisciente e onnipotente Montecristo. Mi sono trovato davanti queste
cose che nella sostanza so di aver pensato spesso, ma delle quali so
anche di avere sempre un po' dubitato. E naturalmente non è che con
questo la domanda alla fine abbia ricevuto una risposta.
«Amico
– disse Montecristo con una malinconia uguale alla sua, –
ascoltatemi:
«Un
giorno, in un momento di disperazione uguale al tuo, perché
comportava una simile decisione, volli uccidermi come te; anche tuo
padre un giorno, ugualmente disperato, volle uccidersi.
«Se
qualcuno avesse detto a tuo padre, mentre si puntava la canna della
pistola alla fronte; se qualcuno avesse detto a me, quando
allontanavo dal mio giaciglio il pane del carcerato che non toccavo
da tre giorni; insomma, se qualcuno, in quei momenti supremi, avesse
detto a entrambi:
«“Vivete!
verrà un giorno in cui sarete felici e benedirete la vita”; da
qualunque parte venisse quella voce, l’avremmo accolta con il
sorriso del dubbio o con l’angoscia dell’incredulità, eppure,
quante volte tuo padre, abbracciandoti, ha benedetto la vita, quante
volte io stesso…»
«Ah!
– gridò Morrel interrompendo il conte, – voi non avete perduto
che la vostra libertà, e mio padre non ha perduto che i suoi beni;
ma io, ho perduto Valentine».
«Guardami,
Morrel – disse Montecristo con quella solennità che in certe
occasioni lo rendeva così grande e persuasivo, – guardami: non ho
lacrime negli occhi, né febbre nelle vene, né palpiti di
disperazione nel cuore; eppure ti vedo soffrire, te, Maximilien, te
che amo come amerei un figlio; ebbene, questo non ti dice, Morrel,
che il dolore è come la vita, e anche al di là del dolore c’è
sempre qualcosa di sconosciuto? Ora, se ti prego, se ti ordino di
vivere, Morrel, è perché sono convinto che un giorno mi
ringrazierai per averti conservato la vita».
«Mio
Dio! – gridò il giovane, – mio Dio! che mi dite, conte? Badate!
forse non avete mai amato, voi!»
«Bambino!...»
rispose il conte.
«D’amore
– riprese Morrel, – io me ne intendo.
«Io,
vedete, sono un soldato da quando sono un uomo; sono arrivato ai miei
ventinove anni senza amare, perché nessuno dei sentimenti che ho
provato fino ad allora merita il nome di amore; ebbene, a ventinove
anni ho visto Valentine: dunque la amo da circa due anni; da circa
due anni ho potuto leggere le virtù della figlia e della donna
scritte dalla mano del Signore nel suo cuore aperto per me come un
libro.
«Conte,
con Valentine provavo una felicità infinita, immensa, sconosciuta,
una felicità troppo grande, troppo completa, troppo divina per
questo mondo; poiché questo mondo non me l’ha concessa, conte,
significa che senza Valentine per me sulla terra non c’è altro che
disperazione e desolazione».
«Vi
ho detto di sperare, Morrel» ripeté il conte.
«E
allora fate attenzione, ripeterò anch’io – disse Morrel, –
perché voi cercate di persuadermi, e se mi persuaderete, mi farete
perdere la ragione, facendomi credere che posso rivedere Valentine».
Il
conte sorrise.
«Amico
mio, padre mio! – gridò Morrel esaltandosi, – state attento a
ciò che dite, ve lo ripeto per la terza volta, perché l’ascendente
che avete su di me mi spaventa; badate al senso delle vostre parole,
perché ecco che i miei occhi già si rianimano, il mio cuore si
riaccende e rinasce; state attento, perché mi farete credere a cose
soprannaturali.
«Vi
obbedirei se mi ordinaste di togliere la pietra del sepolcro di
Giairo, camminerei sulle acque come l’apostolo, se mi faceste segno
di camminare sulle acque;
badate, obbedirei».
«Spera,
amico mio» ripeté il conte.
«Ah!
– disse Morrel ricadendo dall’altezza della sua esaltazione
nell’abisso della sua tristezza, – ah! vi prendete gioco di me:
fate come quelle buone madri, o piuttosto come quelle madri egoiste,
che placano con parole melliflue il dolore del bambino, perché sono
stanche delle sue grida.
«No,
amico mio, avevo torto di dirvi di fare attenzione, no, non temete,
seppellirò il mio dolore con tanta cura nel profondo del mio cuore,
lo renderò talmente segreto che non dovrete neppure prendervi il
disturbo di compatirmi.
«Addio,
amico mio, addio!»
«Al
contrario – disse il conte; – da questo momento, Maximilien, tu
vivrai accanto a me e con me, non mi lascerai più, e tra otto giorni
ci saremo lasciati la Francia alle spalle».
«E
mi dite ancora di sperare?»
«Ti
dico di sperare, perché so in quale modo guarirti».
«Conte,
voi mi rendete ancora più triste, se è possibile. Voi credete che
la sciagura che mi ha colpito mi procuri un banale sconforto, e vi
sembra di potermi consolare in un modo banale, con un viaggio».
E
Morrel scosse la testa con sdegnosa incredulità.
«Che
vuoi che ti dica? – riprese Montecristo.
«Ho
fiducia nelle mie promesse, lasciami provare».
«Conte,
voi prolungate la mia agonia, ecco tutto».
«Così
– disse il conte, – debole cuore che sei, non hai la forza di
concedere al tuo amico qualche giorno per la prova che vuole tentare!
«Su,
lo sai tu di cosa è capace il conte di Montecristo?
«Lo
sai che comanda a molte potenze terrestri?
«Lo
sai che ha abbastanza fede in Dio da ottenere dei miracoli da colui
che ha detto che con la fede l’uomo poteva sollevare una montagna?
«Ebbene,
il miracolo in cui spero, attendilo, oppure…»
«Oppure…»
ripeté Morrel.
«Oppure,
attento a te, Morrel: ti chiamerò ingrato».
«Abbiate
pietà di me, conte».
«Ho
talmente pietà di te, Maximilien, ascoltami, ho talmente pietà di
te che se non guarisci entro un mese, stesso giorno, stessa ora,
ricorda bene le mie parole, Morrel, io stesso ti metterò davanti
queste pistole cariche e una coppa del veleno più sicuro d’Italia,
di un veleno più infallibile e più veloce, credimi, di quello che
ha ucciso Valentine».
«Me
lo promettete?»
«Sì,
perché sono un uomo, perché anch’io, come ti ho detto, ho voluto
morire, e spesso, dopo che il dolore si era allontanato da me, ho
sognato le delizie del sonno eterno».
«Oh,
sì, me lo promettete, conte?» gridò Maximilien inebriato.
«Non
te lo prometto, te lo giuro» disse Montecristo tendendo la mano.
«Tra
un mese, sul vostro onore, se non sarò consolato mi lascerete libero
di fare ciò che vorrò della mia vita, e qualsiasi cosa ne farò,
non mi chiamerete ingrato?»
«Tra
un mese, stesso giorno, Maximilien; tra un mese, stessa ora, e la
data è sacra, Maximilien: non so se ci hai pensato, oggi è il 5
settembre.
«Oggi
sono nove anni che ho salvato tuo padre, che voleva morire».
Morrel
afferrò le mani del conte e le baciò; il conte lo lasciò fare,
come se comprendesse che quell’adorazione gli era dovuta.
«Tra
un mese – continuò Montecristo, – avrai, sul tavolo al quale
saremo seduti sia tu che io, delle buone armi e una dolce morte; ma
in cambio mi prometti di aspettare fino ad allora, e di vivere?»
«Oh!
ve lo giuro a mia volta» esclamò Morrel.
Montecristo
strinse a sé il giovane in un lungo abbraccio.
«E
ora – gli disse, – a partire da oggi, tu vieni ad abitare con me;
prenderai l’appartamento di Haydée, e mia figlia almeno sarà
sostituita da mio figlio».
«Haydée!
– disse Morrel; – che ne è di Haydée?»
«È
partita stanotte».
«Per
lasciarvi?»
«Per
aspettarmi… Preparati a raggiungermi agli Champs-Élysées, e fammi
uscire di qui senza che mi vedano».
Maximilien
abbassò la testa, e obbedì come un bambino o come un apostolo.
(Alexandre
Dumas, Il Conte di Montecristo, Garzanti, Milano 2011, cap CV,
p.1153-56)
(1)
Devo confessare di sapere che questa canzone è storicamente una
delle preferite di Berlusconi, che amava cantarla quando da giovane
faceva l'intrattenitore sulle navi da crociera. Del resto, posso
prendere questo fatto come un'altra conferma del rischio che si corre
a farsi piacere certe cose...
Nessun commento:
Posta un commento