Charles Angrand, Le gardien de dindons (1881) |
La prendo da
lontano. Per esempio: uno va (per la prima volta) alla Guggenheim a
Venezia e viene naturalmente colpito da molte cose. Ma poi capita
che, per ragioni certamente diverse dal valore estetico o storico in
sé, la cosa che lo fa riflettere di più sia un quadro certamente
non fondamentale di un probabilmente minore esposto nella mostra
temporanea su postimpressionisti vari.
Mi capita
spesso, quando spiego storia, di citare la situazione di una piccola
proprietà familiare, con un po' di terra e qualche bestia, come
condizione tipica di un'agricoltura precapitalistica. In questi casi,
quando si parla dell'allevamento, mi capita di ricordare che la
modalità normale di gestione di un piccolo gruppo di animali da
cortile prevede che qualcuno li porti quotidianamente a pascolare,
compito facile, che può essere assolto molto tranquillamente da
qualunque bocia
della famiglia, anche piccolo, anche non furbissimo, dotato solo di
se stesso e di uno stecco con cui visciatàr
con relativa severità eventuali indiscipline animali.
Il Gardien
de dindons (1881) di Charles
Angrand presenta esattamente una situazione di questo tipo, anche se
il pitòn
non è l'esempio più tipico, sul piano storico. Ma non importa. Il
punto è che questo ragazzo con lo stecco in mano mi sembra
raccontato non solo a partire da una solida compassione sociale di
fondo (come mi risulta accada spesso, particolarmente in Francia,
particolarmente in quel periodo) ma con un'attenzione non banale a
una condizione di esistenza monodimensionale. Che vita può aspettare
questo piccoletto? Un bocia
la cui faccia si vede solo di scorcio, il cui sguardo deve restare
orientato nella direzione imposta dal suo dovere monotono, quella del
movimento che anima il quadro lungo la diagonale SE-NO, e il cui
mantello è, immagino non a caso, dipinto in modo omogeneo e non con
il tocco diviso che spetta all'erba e alle bestie e che anima l'una e
le altre di una vibrazione che è, a occhio, il vero soggetto del
quadro.
Penso spesso
a quando ci chiediamo come animare le nostre vite, a come non siamo
soddisfatti della loro intensità e grandezza, a come
vogliamo/vorremmo essere più grandi e capaci di cose grandi e per
questo ci sforziamo di lavorare su più piani, di darci (a noi
stessi) consistenza e spessore. In questo senso, chiedersi come vivrà
quel ragazzino dipinto non serve tanto a consolarci della povertà
delle nostre esistenze, magari abbastanza varie in confronto alla sua, ma a ricordarci che non abbiamo veramente idea
di cosa sia nobile e autentico e che la vanità resta sempre in
agguato dietro al nostro sforzo di fare cose belle e importanti.
Dipingersi e
raccontarsi (anche quando uno dipinge e racconta altre cose –
magari totalmente altre – rispetto a sè) allora è indispensabile
e inevitabile: tutto sta a decidere quanto e in che modo farlo.
Sapendo poi che questa non è una biforcazione qualsiasi delle nostre
vicende, come decidere se imparare a sciare piuttosto che a ballare
il tango, ma è l'elemento, solo in apparenza esteriore, che dà
forma alla composizione. Più il racconto è buono e di qualità più
l'insieme sta in piedi e dura. Lo fanno tutti: mettendo insieme poche
parole semplici da dire a un figlio o a un nipote (che chissà quanto
ascolta e capisce) o cercando di farsi intendere dall'universo mondo.
Questa operazione, di fare di se stessi un protagonista o un
comprimario di qualche genere di romanzo, la facciamo tutti, almeno
da quando la possibilità di essere liberi ci ha spinto a non
accontentarci più di un piccolo posto in un grande racconto
inventato da altri, da una qualche chiesa che ti dica dove stanno le
tue radici sulla terra e quale funzione svolgi e devi svolgere
nell'ordine voluto da qualche Dio. Poi sappiamo bene che non è detto
che questo basti a renderci liberi: non lo siamo certamente se
accettiamo di farci mettere, anziché in queste grandi storie,
comunque piene di fascino, dentro alle balle di brevissimo respiro
che il mondo inventa solo per poter continuare a funzionare: tipo, ma
non solo, quelle che ci spingono a pensare che la nostra vita sarà
risolta dal fatto di poterci comperare questa o quell'altra cosa. Per
questo, doversi inventare il proprio racconto è una libertà e una
condanna insieme, perchè non si tratta di un compito facile e non
tutti ne sono capaci, anche se a volte persone semplici che hanno
fatto una vita semplice ne sono in grado meglio di gente che ha
pensato e fatto e visto molte cose diverse.
Dunque forse
non sempre abbiamo tutte le ragioni quando facciamo fatica ad
accettare di poter essere solo dei personaggi di contorno, di
spiegare la nostra vita solo a partire da poche dimensioni
elementari, di essere dipinti senza sfumature nell'atto di svolgere
il compito nel quale alla fine consiste tutta la nostra vita, per
esempio guardare i tacchini. E' vero che il mondo richiede molto più
di questo, ma è vero anche che forse, piuttosto di perdersi in mille
impegni e non sapersi più spiegare a se stessi, ci sono molte
ragioni per guardare senza diffidenza all'ipotesi di dedicare una
religiosa attenzione proprio alle poche cose immediatamente
necessarie a sopravvivere – tipo fare il proprio lavoro, tipo
cucinare lavare e fare le pulizie, per se stessi e per gli altri. Il
mondo ha bisogno di continua manutenzione. Aver imparato a fare bene
alcune cose è già una mezza salvezza. E bene vuol dire: in
modo che chi si serve di quello che fai sia contento di quello che
gli hai dato. E può darsi che tocchi accontentarsi perchè
l'altra mezza salvezza non si sa neanche se da qualche parte sia
disponibile.
P.S.
Pensando a queste cose, come sempre, ne vengono in mente delle altre.
Tipo Fellini che per buona parte del suo lavoro ha raccontato la
condizione umana come segnata irrimediabilmente dalla nostalgia di
un'altra, impossibile, vita, che infatti non c'è. Ma anche quei
grandissimi scultori del '900, come Brancusi, Moore o Jean Arp (di
cui ci sono appunto alcune cose alla Guggenheim) che,
sgualivando bene la materia che avevano per le mani (molto
spesso del metallo) sono andati in cerca delle forme più elementari
e naturali e semplici e materne a cui potevano pensare. Ecco, questa
forse la posso usare la prossima volta che spiego i presocratici.
davanti al Fruit-amphore di Jean Arp |
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