“Ieri
un giovane uomo è morto all'alba, un ragazzo di vent'anni, il figlio
di un mio compagno di scuola. Si chiamava Aziz Abderramane, è stato
ghigliottinato. Non hanno mai provato la sua colpevolezza e oggi io
mi sento più vicino a lui che a tutti quei francesi che parlano
dell'Algeria senza conoscerla. Non l'ho mai incontrato, ma conosco
bene suo padre e non è l'odio che ho visto nel suo sguardo, ma la
disperazione e la tristezza, una tristezza che io condivido con lui.
Il
suo volto è quello del mio paese.
Le vittime del dramma algerino appartengono tutte a una stessa famiglia tragica i cui membri si massacrano in piena notte senza riconoscersi, brancolando nell'oscurità nelle viscere di uno scontro cieco. Presto l'Algeria non sarà più popolata che di vittime e di assassini e solo i morti saranno innocenti.
Io
sono sempre stato e continuo a essere per un'Algeria giusta dove
tutti potranno avere gli stessi diritti nell'uguaglianza. E'
necessario rendere al popolo algerino ciò che gli è dovuto e dargli
delle leggi pienamente democratiche: bisogna unire invece di
dividere. Ma così come ho sempre disapprovato il terrore, non posso
che condannare delle azioni compiute alla cieca nelle strade, che un
giorno possono colpire anche qualcuno che ci è caro.
Io
credo nella giustizia e dico agli arabi: «Io vi difenderò a ogni
costo, ma mai contro mia madre, perchè lei ha subito come voi
l'ingiustizia e la sofferenza. E se nella vostra rabbia voi le fate
del male, io sarò vostro nemico»” (1).
A
rileggerlo, non so se è proprio l'unico discorso possibile da parte
di un europeo, di un occidentale, anche se sembra la ricerca di un
punto di mediazione percorribile che si possa applicare quasi
dovunque, quasi a qualsiasi situazione. Non so quanto bene l'Algeria
degli anni '50 si possa davvero sovrapporre, per andare all'esempio
più ovvio, a quella della Palestina e delle sue declinazioni nel
tempo. Il discorso suona pressappoco: “Voi avete tutti i diritti e
io sono sincero nel dire che farò tutto il possibile per farveli
riconoscere e difendervi. Ma non posso accettare la violenza
indiscriminata e soprattutto non toccatemi mia madre ”.
La
sintesi forse è un po' brutale ma non mi pare che falsi il senso
delle parole. E chiarisce che si tratta comunque di un enigma al
quale queste parole non trovano soluzione: a che punto diventa
legittima la violenza? Come si individua il confine restando al di
qua del quale si impedisce alla spirale di cominciare ad avvitarsi?
Stabiliamo i casi in cui si può reagire usando la forza e
codifichiamo i termini di una lotta mirata e regolata come una guerra
(ammesso e non concesso che si possa pensare che la guerra risolve
qualcosa e che la si possa regolare)? L'opzione “nessuna violenza”
si può ovviamente considerare, ed è quella della fiducia nella
civiltà e nel primato della coscienza. Ma quante volte nella storia
ha funzionato e come può funzionare se non quando l'avversario è
qualcuno che crede nella civiltà e nel primato della coscienza? E
allora l'enigma resta e l'unica opzione resta proprio questa, di
cercare una linea al di qua della quale si possa decidere di provare
a rinunciare alla forza.
Ma
anche questo non funziona mai. O meglio, funziona solo nel senso che
alla fine la violenza esplode e contribuisce in modo decisivo, se non
da sola, a determinare quale realtà si realizzerà dopo lo scontro.
Perchè l'europeo pretende che non tocchino la sua mamma, ma
probabilmente non è ragionevole pretendere questo da chi prova una
rabbia che non è nata ieri e che nel tempo ha mangiato abbastanza da
diventare parecchio grande.
Si
ha un bel dire che la rabbia produce sempre più danni che risultati.
La rabbia impedisce di capire le ragioni degli altri (quando ci sono)
e rende scarsamente capaci di progettare un modo di (con)vivere
possibile, in cui le ragioni diventino compatibili. Ma è difficile
dire questo a chi prova rabbia. Dovrebbe pensarci piuttosto chi ha
provocato l'accumulo della rabbia e per questo ha la responsabilità
principale della situazione. Ma se l'enigma si trascina per
generazioni la sua soluzione diventa ancora più difficile. I figli
degli arrabbiati sono stati allevati mangiando rabbia tutti i giorni
e provano rabbia come i padri o anche di più. I figli degli europei,
che non l'hanno provocata direttamente, di questa rabbia capiscono le
ragioni, ma non la provano e questo fa una grossa differenza.
Facciamo
astrazione per un momento dalla presenza degli oppressori e bastardi,
che sono la radice e la sostanza del problema, e chiediamoci come
possono vivere casa con casa quelli che hanno ereditato la rabbia e
quelli che hanno imparato a conoscere e praticare la civiltà? I
secondi riconoscono i diritti dei primi in base ai loro stessi
principi: “Liberté egalité fraternité: que sont devenus les
valeurs de la France ici en Algerie?”, questo è il tema che
monsieur Bernard, il vecchio maestro, assegna a Jacques quando lo
incontra, come problema che la sua coscienza di intellettuale deve
chiarire agli uomini del suo tempo, della sua Algeria e della sua
Francia. Come fa chi crede nei principi a riconoscere veramente i
diritti di chi è stato calpestato, se non trova il modo di
affrontare (capire, forse in qualche misura provare, elaborare, far
depositare...) la rabbia? E che prezzo bisogna essere disposti a
pagare? Non la mamma, d'accordo, ma che cosa allora? Bernard sa che
la violenza ha molte ragioni: lo rivela a Jacques quando gli ricorda
le lezioni sulla storia dell'antica Roma e gli rivela: “Il y a une chose que je ne vous disais pas: on peut etre aussi du coté
des barbares”.
Allora
ha torto lo scrittore Jacques Cormery? Ha torto Camus, che aveva
fatto la Resistenza come Sartre ma che a differenza di Sartre accettò
il Nobel? E che dice a chi rivendica i propri diritti: “Ok: sapete
che sono d'accordo con voi. Ma fatemi pagare un prezzo ragionevole e
trovate, aiutatemi a trovare un modo per vivere insieme”. Ha torto?
A me pare di no. E' esattamente quello che direi io al suo posto.
Pensando che, se fossi al posto di chi è arrabbiato, forse riuscirei
a convertire l'incazzatura in qualcosa che funzioni e che mi permetta
di parlare guardando negli occhi almeno quelli che non hanno troppe
responsabilità, e di lavorare con loro cominciando a occuparmi di
una cosa alla volta, a partire dal decidere come affrontare gli
oppressori bastardi.
Ho detto che forse ci riuscirei. Posso confidare nella mia
pazienza, che credo di possedere in misura interessante ma che non è una virtù politica. Non si può sapere
come la sofferenza ti cambia fino a quando non la provi. E questo è,
più o meno, Sartre. Ma è anche Camus, che infatti al principio
della storia fa dire a Jacques che “celui qui écrit ne sera
jamais à la hauteur de celui qui meurt”: chi scrive non è mai
all'altezza di chi muore.
Questo post lo avevo preannunciato qui, alla nota (4).
Questo post lo avevo preannunciato qui, alla nota (4).
(1)
E' il discorso pronunciato alla radio dallo scrittore Jacques Cormery
nel film “Il primo uomo” di Gianni Amelio, tratto dall'omonimo
romanzo di Albert Camus.
Sono d'accordo.
RispondiEliminaAggiungerei: vai a casa di chi è arrabbiato, abitaci per un po', guarda da vicino, fatti raccontare la sua rabbia e arrabbiati anche tu, e poi torna a casa tua e solo allora ragiona sulla soluzione.
Sì, ammesso che basti un viaggio e che la rabbia che hai maturato abitando fuori casa non sfumi quando torni. Perchè: quanti viaggi puoi fare? Da quanti mali ti puoi far contagiare prima che ti venga l'affanno, abbastanza da costringerti a non muoverti più. Lo so che può essere un buon modo di consumare la vita, in fin dei conti anch'io sono anni e anni che faccio il pendolare. Come tanti altri del resto. E' vero anche che la preghiera serve proprio a questo: a coltivarsi dentro il dolore altrui perchè resti caldo. Ma il problema vero, fondamentale, è: da dove lo prendi il calore? Quale fonte di energia? Come la alimenti?
RispondiEliminaLa rabbia sfuma di sicuro e può lasciare il posto a un ragionamento, ma è un ragionamento molto più completo di quello che si sarebbe riusciti a fare non avendola mai provata, credo.
RispondiEliminaQuesta cosa la penso sempre della Palestina.