Georges Perec |
Il potente re è sorpreso e forse leggermente infastidito
dalla noncuranza di questo anziano signore, di cui si precisa che la
guerra recente gli ha tolto moglie e figli: per questo lo interpella
chiedendogli se ha perso qualcosa. Stilpone, senza scomporsi, gli
risponde di avere con sé tutto quello che gli appartiene veramente
(“omnia mea mecum sunt”) e Seneca si sofferma a lungo
sull'esempio di virtù costituito dal comportamento di uno che non ha
bisogno di niente e non si attacca alle cose.
Queste
icone etiche paradossali sono belle da vedere, apparentemente
scintillanti. Ma sono quasi del tutto inutili, come tutto il nostro
tempo dannato ha imparato con dolore a capire, se non prendiamo atto
anche di quanto sia inevitabile che la nostra esistenza si incrosti
sulle cose che abbiamo e che usiamo, sulle quali cerchiamo sostegno e
ci aggrappiamo, tanto che alla fine ci rimangono sempre impigliati
sopra parecchi brandelli di roba nostra. E da questo fenomeno non
restano esclusi quegli oggetti solo apparentemente immateriali che
sono i libri o gli altri portaparole moderni, più o meno
tecnologici, che alcuni giustamente considerano il substrato delle
proprie “patrie portatili”. Il punto (e il problema) è che noi
oggi ci siamo accorti che se cerchiamo di liberarci da questa specie
di rete, pensando che più che sorreggerci ci ostacoli e ci impedisca
di essere liberi e procedere più leggeri, e proviamo, con un duro
esercizio, a staccarci dalle cose, rischiamo di trovare, come
sorpresa finale, che sotto e dietro a questa rete irregolare di
sporgenze e spuntoni non c'è niente. La leggerezza della nostra condizione è
quella del fun o del caìvo (quale allegria? niente
allegria...), rispetto alla quale le cose conservano invece
una densità che permette loro di durare e sopravviverci, di portarsi
dietro senso condensato, magari indecifrabile e comunque equivoco,
che poi si piazza da qualche parte a formare appigli che poi servono
a chi altro passa di là per appendersi a sua volta.
Giorgio,
che nella foto, emblematicamente, quasi lascia al gatto la parte del
protagonista, aveva benissimo capito questa cosa. Ma soprattutto è
stato quello, tra quelli che conosco, che è riuscito a mettere
meglio insieme questa scoperta abissale e apparentemente tristissima
della vanità dell'esistenza con l'ostinazione dell'attenzione e della
memoria (e, naturalmente, dell'amore) che lottano contro la morte. E'
una battaglia persa in partenza, si sa, ma mica c'è altro da fare. E
allora ci si mette lì e ci si costruisce, senza neanche troppa
fatica, una specie di religiosa benevolenza verso tutto, la quale poi
permette di trovare sensati e praticabili i celebri elenchi e
descrizioni dettagliate che fanno per buona parte lo spessore (anche
fisico) del suo Libro, vale a dire La vita istruzioni per l'uso
(2).
Non
è possibile leggerlo facendo attenzione a tutto: su molti passaggi è
inevitabile correre via. Ma ci sono elenchi, immagino diversi da
persona a persona, su cui invece la memoria si impiglia e viene
trattenuta e ci si ferma un attimo su ogni nome e dato e particolare
lasciando che risuoni ed evochi. Perchè comunque l'effetto
complessivo che la massa di nomi e dati e particolari produce è
quello di far pensare a ogni oggetto e a ogni luogo fisico (ogni
stanza dell'edificio che è il luogo e insieme il catalizzatore delle
vicende del romanzo) come a un punto di una mappa molto analitica, a
un rilievo in una superficie vasta e accidentata, a un incrocio di
coordinate dietro al quale preme una vertigine di forze ed eventi che
hanno congiurato, casualmente o provvidenzialmente, per produrlo. E'
questa bellissima e malinconica combinazione di vuoto di senso e
pienezza sentimentale che mi fa volere così bene a Giorgio e che, in
questi giorni, mi ha fatto divertire e commuovere ancora una volta,
alla terza lettura.
Architettura
ipercontrollata, costruita da chi comunque sa di non potere invece a
sua volta mantenere il controllo di tutto, l'impresa del libro, nella
sua complessità e vanità insieme, è rappresentata nella vicenda
del protagonista principale, il ricchissimo Bartlebooth. Ma nel
racconto di questi tentativi disperati e vani (quello dell'autore e
quello del protagonista) di compiere qualcosa purchessia
(gratuito per gratuito, meglio se si tratta di un gioco
complicatissimo e laborioso...), emergono come isole di un arcipelago
tutte le storie degli altri, protagonisti e meno. Sono una più
bella dell'altra (3) e molte di esse offrirebbero potenzialmente
materiale sufficiente per un romanzo intero. Nell'insieme conservano
dentro tutta la lezione della grande letteratura classica: vitale,
fluviale, emozionante, con alla radice la gioia elementare e il
desiderio potentissimo del puro racconto.
Il
Camus raccontato da Amelio (4) mi diceva proprio ieri, a margine del
suo ragionamento sui conflitti tra le patrie, che il senso della
storia non si trova nella storia ma nella letteratura. Appunto. E
anche il nonsenso della storia. E anche, malgrado il nonsenso, i
soliti amori dolori sudori. Giorgio, come tanti scrittori bravi, non
ti lascia entrare tanto facilmente ma, come spesso accade, una volta
che sei entrato ti offre qualcosa di buono: una delle intuizioni più
precise, come si diceva, della nostra condizione in questo
lunghissimo presente disorientato, però accompagnata da quella forza
e delicatezza di sentimenti che è la risorsa senza la quale ci è
impossibile vivere. Uno: il sentimento di dispiacere che si prova
nel vedere le vite incompiute, i progetti falliti, gli amori sfioriti
o traditi e tutte le cose e i progetti su cui gli uomini investono e
si affannano con molto costrutto ma anche poi con un destino di
inevitabile e fatale insoddisfazione e distruzione. Due: il
sentimento che chi ha fallito (cioè in qualche misura tutti) prova,
quello che evoca altre vite e percorsi diversi che erano e forse
sarebbero ancora sempre a portata di mano e che però sono perduti o
impossibili per forza di cose o debolezza nostra. Si tratta di un
dolore tra i più tenaci, spesso sordo, a volte acuto. Tre: la
compassione oblunga, quella che ti fa assolvere tutti perchè tutti
hanno sofferto abbastanza e chiede pietà e rispetto a un qualche
genere di Dio. E che mette nella fondamentale disposizione, quando
occorre, di preparare un piatto di minestra calda per chiunque abbia
fame e freddo.
- Ad
Luc. 9, 18-19. "E
tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano,
o che spesso addirittura antepone a se stesso, il saggio delimiterà
in sé ogni suo bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilpone,
quello stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la
caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscendo
solo, e tuttavia sereno, dall’incendio generale, a Demetrio, che
ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte,
che gli domandava se avesse perso qualcosa, rispose: «Tutti i miei
beni li ho con me.»
Ecco
un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. «Non ho
perso nulla», disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria
vittoria. «Tutti i miei beni li ho con me»: senso di giustizia,
virtù, saggezza e soprattutto la certezza che non è un bene ciò
che può essere tolto. Noi ammiriamo certi animali che attraversano
il fuoco senza farsi male; ma quanto è più ammirevole quest’uomo
che uscì illeso e indenne dalle armi, dalle rovine, dalle fiamme!
Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo?
Stilpone ha in comune questa convinzione con il filosofo stoico:
anch’egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme;
poiché egli basta a se stesso delimita entro questi confini la sua
felicità". La traduzione è trovata in rete. Mi pare canonicamente corretta.
- La vie mode d'emploi, 1978, tradotto in Italia nell'84, circola in edizione Rizzoli 2002 a 10 euri.
- Alcune di queste storie, infatti, sono state utilizzate con successo come lettura serale per V. e L., nel lettone.
- Il riferimento è al dialogo tra lo scrittore Jacques Cormery/Camus e il vecchio maestro nel film Il primo uomo, di Gianni Amelio. La frase è: “La verità è nei romanzi. La Russia non è nei libri di storia, ma nei libri di Tolstoi e Dostoevskji". Mi torna che una frase del genere venga affidata a quell'autentico teacher man (seppure in versione, ovviamente, retro) che è il monsieur Bernard di Camus. In questo film va visto anche, oltre a tutto il resto, l'intervento (complesso e un po' predicatorio, ma molto fine e di grandissimo spessore) che il protagonista fa alla radio nel finale: ottimo esempio di come si disegna l'unica difficilissima, il più delle volte improbabile, prospettiva possibile nei conflitti tra patrie sullo stesso territorio. Se ho tempo lo trascrivo per vedere se è davvero così bello come mi è sembrato. (P.S. La trascrizione è qui)
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