Hanno
quasi quarant'anni, trentanove per la precisione. E non sono neanche
i più vecchi: i miei ex-allievi più vecchi adesso ne hanno
quarantuno. Però è comunque una delle prime tre classi che mi sono
state affidate nella scuola privata in cui ho cominciato a insegnare.
Prima avevo fatto solo una supplenza di quindici giorni in una scuola
media. Poi là: a scuola dai preti,
a fare italiano e latino, con parecchia passione e impegno e nessuna
esperienza.
Com'ero?
Difficile ricordare. Ho presente bene che c'era molto da studiare,
perchè per insegnare dieci ti senti che devi sapere cento e ancora
non basta. Ho presente che cercavo di fare cose nuove e di rendere
almeno un po' originali le cose di cui parlavo, che facevo lo sforzo
(che ho sempre fatto) di filtrare quello che leggevo e raccontavo in
modo da integrarlo il più possibile con le cose che vedevo e che
vivevo, e che pensavo anche loro potessero e dovessero vivere e
vedere. A qualcosa serviva, anche se sapevo per esempio che a
qualcuno degli studenti stava sul cazzo il mio tentativo di non
essere esattamente un prof. classico. Qualcuno probabilmente
preferiva una cosa magari più ovvia ma più semplice, anche solo per fare meno fatica. Ma forse è vero che non avevo del
tutto la misura. Ho sempre avuto la tendenza a metterla giù un po'
difficile, qualche volta forse un po' troppo. Ma ho sempre preferito
così, pur aggiustando il tiro per adattarmi al livello di chi avevo
per le mani, perchè ho sempre pensato che chi studia vada messo
un po' in difficoltà e che sia giusto ogni volta proporre ai fioi
una piccola sfida.
Ma
so che poi, molto spesso, di tutto questo impegno nella loro memoria
di solito non resta gran che. Dopo anni, di te si ricordano
soprattutto le cazzate. Le manie gli errori le gaffes,
l'abbigliamento fuori moda eccetera. Una volta ho incontrato una
laureata che non ha trovato di meglio che rievocare la volta che ero
andato a scuola con un calzino verde e uno grigio (se ti alzi prima e
non accendi la luce per non disturbare chi dorme ancora, può
capitare...). Ripensano a quello che sei, cioè che eri, e in genere
ai lati peggiori, mentre di quello che fai, cioè che hai fatto, di
quello che hai cercato di far passare, a volte neanche una briciola.
Non
posso dire di essere rimasto deluso rivedendoli. Quasi tutti maschi:
al ristorante, un locale piuttosto cavà su, alla cena per il
ventesimo anniversario della loro maturità (giugno '92) le ragazze
erano solo due su sei. Senza dubbio sono diventati uomini (e donne) e
praticamente tutti mi hanno dato un'impressione di sostanziale
solidità ed equilibrio. Non mi ha fatto più di tanta impressione
neanche ripensare al piccolo problema dell'orientamento politico
abbastanza largamente diffuso tra loro, che all'epoca mi aveva un po'
messo in imbarazzo sia quando un padre mi aveva detto che per lui
“l'insegnante doveva essere come il Duce della classe”, sia
quando una madre mi aveva citato non so che pensiero profondo e
illuminante di Mussolini. Ho trovato che francamente meritassero un
onesto e sincero rispetto: a occhio, per alcuni, probabilmente,
andando a vedere caso per caso cos'hanno combinato, ci sarebbe magari
da scomodare anche l'ammirazione. Ma.
La
cosa che si ricordavano meglio alla fin fine era che tra noi c'era
stata una guerra non troppo radicale ma aperta e dichiarata, che io
all'epoca non ho trovato di meglio da fare che combattere gridando
loro dietro. Spesso, intensamente. Adesso non mi capita quasi più:
quando sai di avere il manico in mano ti basta un piccolo sforzo per
impedire agli studenti di rompere e per indurli a seguire, cercando
sempre di usare più le buone che le cattive. Ma all'epoca era
difficile: la bestia da classe sente subito la tua incertezza e se ne
approfitta. E se non sei abbastanza forte da reagire subito nel modo
più efficace, se non dimostri che con te non si scherza, la vita
diventa abbastanza difficile. Era il tempo in cui ogni quindici
giorni mi dicevo che avevo sbagliato mestiere, cosa che poi mi sono
reso conto essere la normalità assoluta quando si comincia a
insegnare. Era il tempo in cui avevo, dono della zia N., una vecchia
Fiat 126 bianca con sfregio di ruggine sulla portiera del guidatore,
sfregio che fu tirato su dal carrozziere, lavoro che fu pagato dalla
mia terza mesata di stipendio. Io arrivavo alla scuola, parcheggiavo
e uscivo dalla macchina praticamente rasoterra, spesso mentre proprio
nello stesso momento arrivava uno studente che sistemava il suo
gippone (una specie di nonno dei suv) nel posto accanto e,
scendendo dal suo sedile, collocato circa al livello della mia capote,
mi guardava inevitabilmente e inequivocabilmente dall'alto in basso.
Inesperienza a parte, non servono tanti altri dettagli per capire perchè mi toccasse
gridare. E immaginavo, prima di rivederli, che anche adesso quello che io so
fare è cosa che a diversi, forse alla maggior parte di loro, non
serve: facile che mi fosse riservato un rispetto d'ufficio, senza
impegno e senza autentica stima.
Così
per la cena mi sono anche travestito, come ogni tanto faccio, da
persona estroversa. Non è troppo fastidioso e permette di non subire
troppo, anche se rivela una punta di insicurezza. Così ho parlato
molto e ho risposto a tono a tutti. Ma è sempre una scelta un po'
faticosa. E comunque tutto è stato regolarmente gradevole, senza
incidenti. Avevo bisogno di rivincite? No, non le ho cercate e
d'altra parte non ce n'era modo e sarebbe stato stupido. Siamo grandi
abbastanza per guardarci con rispetto. Reciproco, se possibile. Ma
anche non fosse, io il mio ce lo metto e sto meglio così. Non avanzo
niente. Affetto? Tracce: come lo stronzio nell'acqua minerale.
Qualche frase con un peso specifico più alto, un paio di strette di
mano che mi sono parse più sincere, un paio di fioi che (da fuori,
da dentro non sai mai...) sembrano degli autentici family men.
E i moschettieri, gli eroi dell'avventura? Non li ho visti, secondo
me non c'erano. Cosa? E' perchè non ce ne sono più in giro? No, non
è vero, ce ne sono: io qualcuno lo conosco.
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